Finanza

Cattive intenzioni e buone idee

A volte dalle peggiori intenzioni possono scaturire anche buone idee. È il caso, ad esempio, della chemioterapia, che deriva dall’impiego off label di un’arma di sterminio come il gas mostarda. Ed è il caso, più recentemente, della proposta elaborata da alcuni ricercatori che fanno capo al think tank Bruegel per incentivare la spesa militare dei singoli paesi europei. Si tratta di un contributo destinato alla UE a carico dei membri che spendono “troppo poco” in armamenti e che è proporzionale al divario rispetto ad una quota prefissata di spesa militare sul Pil (più esattamente del reddito nazionale lordo, per mantenere la coerenza con altre entrate della UE) che può essere calibrato anche a seconda delle specifiche caratteristiche del paese. I paesi con una spesa militare inferiore alla media europea (o al 5% richiesto dalla NATO) sarebbero chiamati a versare una sanzione pari al 25% dei fondi mancanti in base all’art. 311 del Trattato sul funzionamento dell’Unione, accrescendo così le “risorse proprie” dell’Unione, che attualmente sono costituite essenzialmente da una percentuale del gettito IVA e da contributi basati sul reddito nazionale lordo degli stati membri. Bruegel ha annunciato che la proposta sarà dettagliata meglio nel prossimo rapporto sul bilancio pluriennale europeo.

Al di là dell’obiettivo molto discutibile di riarmare i paesi europei, questa proposta merita una seria considerazione. L’aspetto più promettente è che, forse per la prima volta, si stabilisce un benchmark per l’ammontare di una specifica voce di bilancio degli stati membri. Fino ad ora si erano posti vincoli sull’incidenza del deficit complessivo sul Pil e sul tasso di crescita delle entrate fiscali nell’ambito del patto di stabilità e crescita. La proposta pubblicata da Bruegel intende incidere direttamente sulla composizione della spesa pubblica, seppure limitatamente al capitolo della difesa, aprendo le porte ad un eventuale processo di armonizzazione tra i bilanci nazionali. Un secondo punto interessante è che le risorse raccolte in questo modo potrebbero essere amministrate dalla UE per rafforzare il suo spazio di intervento. In particolare, Bruegel allude all’impiego di questo contributo per finanziare il coordinamento delle politiche nazionali in questo campo. Resta lo scoglio della governance di una simile struttura in mancanza di una politica estera comune, ma questa è un’altra storia.

Ci sono vari motivi per cui i proponenti non si soffermano troppo sull’impiego dei fondi raccolti tramite le sanzioni, anche se accennano alla creazione di un “mercato comune delle armi”, al “rafforzamento dell’integrazione tra le difese” nazionali ed affermano che il carattere di bene comune della difesa giustificherebbe la sua inclusione nel bilancio della UE. Al di là del merito, si tratta di una prospettiva di lungo periodo. Ci sono voluti 30 anni per avere una moneta comune (dal “serpente monetario”, costituito nel 1972 ed entrato in crisi già due anni dopo, fino all’introduzione dell’euro fisico nel 2002), quindi potrebbe volerci anche più tempo per concordare almeno sistemi d’arma interoperabili, che sono pressappoco il corrispondente bellico dei cambi “irrevocabilmente fissi” stabiliti nel 1999. Probabilmente per il riarmo dell’Europa i ricercatori di Bruegel immaginano tacitamente di ricorrere ad un processo simile a quello seguito per la politica monetaria e fiscale europea, in cui regole e istituzioni sono state modellate in corso d’opera. Ad esempio, la Banca Centrale Europea è nata solo nel 1998, ossia molto dopo gli accordi di cambio susseguitisi dagli anni settanta ed il mercato unico ha iniziato a svilupparsi ben prima che fosse completato il quadro istituzionale sulla concorrenza. Questo approccio richiede molto tempo ma ha il pregio di essere pragmatico e flessibile.

La proposta di Bruegel non sfugge ad alcune critiche, ma ha il vantaggio di poter essere generalizzata ad altre voci di spesa e di entrata dei bilanci pubblici. Il primo ostacolo è che l’iter previsto dall’art. 311 per introdurre o modificare le risorse comuni richiede che il Consiglio (formato dai capi di stato e di governo dei paesi membri e dal presidente della Commissione) deliberi tramite la “procedura legislativa speciale, all’unanimità e previa consultazione del Parlamento europeo” e che le decisioni entrino in vigore “solo previa approvazione degli Stati membri conformemente alle rispettive norme costituzionali”. In teoria, nel caso dell’Italia quest’ultimo passaggio potrebbe essere superato da quanto previsto dall’art. 117 della Costituzione, che prescrive il “rispetto dei vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario” senza bisogno di specifici pronunciamenti parlamentari. Non a caso, l’unico precedente di una estensione delle risorse proprie è quello della plastic tax, che peraltro non è stata ancora implementata in tutti i paesi, tra cui il nostro. Il nuovo contributo richiede dunque tempi di approvazione lunghi ed è esposto a numerose incognite applicative.

Nel caso specifico della difesa, il principale problema è che, per un paese che non intenda adeguarsi agli standard concordati, è sempre meno oneroso pagare una sanzione pari solo ad un quarto del divario da colmare piuttosto che spendere in armamenti l’intero ammontare richiesto. Questo comportamento opportunistico è incoraggiato anche dal fatto che la difesa è un bene pubblico sostanzialmente indivisibile, quindi ne usufruiscono anche gli stati che non contribuiscono abbastanza al suo finanziamento. Per questi motivi, l’incentivo a raggiungere qualsiasi quota minima di spesa militare è piuttosto blando e potrebbero esserci parecchi free riders. Inoltre gli stessi autori riconoscono che, se tutti i paesi si adeguassero ad un qualsiasi standard, il gettito del contributo si annullerebbe e quindi non potrebbe essere utilizzato per perseguire obiettivi di lungo periodo come quelli legati alla difesa.

Questi inconvenienti potrebbero essere meno rilevanti per altre voci di spesa, particolarmente quelle riguardanti il welfare. In questo caso, infatti, la spesa non riguarda un bene comune indivisibile tra i paesi come la difesa, ma servizi e prestazioni riservate ai cittadini di ciascuno stato membro. Pertanto ogni euro dovuto per una carenza della spesa rispetto ai benchmark comuni sarebbe sottratto al welfare nazionale e quindi non ci sarebbe alcun incentivo per eventuali free riders. Naturalmente gli obiettivi di spesa dovrebbero essere differenziati per tener conto delle caratteristiche demografiche e sociali dei paesi, sulla falsariga dei criteri utilizzati per calcolare il “costo dell’invecchiamento” nell’ambito delle analisi sulla sostenibilità dei conti pubblici. L’efficacia di un simile meccanismo sarebbe anche maggiore se i fondi raccolti dalla UE tramite le sanzioni fossero utilizzati per fornire i servizi e le prestazioni per i quali risultino inadempienti gli stati nazionali. Una simile previsione legislativa non risulterebbe eterodossa rispetto alle istituzioni e regole europee, perché risponde esattamente al principio di sussidiarietà sancito dall’art. 5 del Trattato sull’Unione. Inoltre va nella direzione della costruzione di quelle istituzioni di garanzia sovranazionali, prefigurate da Luigi Ferrajoli, che hanno il compito di fornire un livello minimo di servizi a tutti i cittadini, in base ad una “costituzione della Terra.”

Nel caso del prelievo fiscale, la fissazione di soglie minime comuni rafforzate da penalizzazioni per chi non le raggiunge potrebbe essere ancora più fruttuosa. Oggi vari paesi membri dell’Unione ricorrono ad un vero e proprio dumping fiscale per attirare capitali, imprese e talenti. Questa distorsione potrebbe essere attenuata se si stabilisse un obiettivo di tassazione minimo comune, al di sotto del quale si pagherebbe un tributo i cui proventi potrebbero essere redistribuiti tra tutti i paesi. In questo modo ogni membro resterebbe libero di ricorrere a pratiche fiscali discutibili, ma almeno sarebbe chiamato a risarcire parzialmente tutti gli altri per gli effetti di tali politiche. Lo stesso approccio potrebbe essere applicato per combattere il dumping sociale, prevedendo dazi sulle esportazioni dei paesi che non garantiscono adeguati standard previdenziali e di condizioni di lavoro. Chi preferisce pagare meno e trattare peggio i propri lavoratori sarebbe ancora libero di farlo, ma almeno sarebbe penalizzato per la concorrenza sleale praticata verso tutti gli altri paesi. Nonostante tutte le difficoltà di implementazione, si tratterebbe di un metodo di calcolo molto più equo e ben fondato della formula di Navarro utilizzata dall’amministrazione americana.

Come si vede, la proposta di Bruegel, seppure nata per finanziare uno dei peggiori impieghi delle risorse pubbliche, si presta a generalizzazioni estremamente promettenti ed è addirittura in linea con le attuali regole comunitarie. Come direbbe De Andrè, dai diamanti di alcuni rapporti più o meno paludati non nasce niente mentre da materiali molto meno nobili possono nascere i fiori. Sarebbe opportuno e realistico introdurre simili provvedimenti in una agenda progressista di riforma delle istituzioni europee che miri allo sviluppo del welfare e alla armonizzazione fiscale.