Il vero pericolo è la Cina o considerare la Cina un pericolo?
Nel 1978, quando il PIL pro capite annuo cinese era di circa 150 dollari — meno di un terzo di quello degli abitanti dell’Africa sub-sahariana— Deng Xiaoping avviò la politica delle “porte aperte” (Open Door Policy), che apriva l’economia cinese al resto del mondo. Seguì, nel 1980, la creazione delle Zone Economiche Speciali, volte a incoraggiare l’afflusso di capitali stranieri. Da queste riforme prese avvio l’ascesa della Cina, il cui successo economico, ben maggiore di quello ottenuto da altri due grandi Paesi membri dei BRICS come l’India o il Brasile, può essere sintetizzato con un dato impressionante: pur con tutte le qualificazioni fatte, fra gli altri, da Maurizio Franzini e Michele Raitano, circa 800 milioni di persone sono state sollevate da condizioni di povertà estrema nell’arco di quarant’anni.
Tale sviluppo fu certamente favorito non solo dalle riforme interne, ma anche dalla quasi contemporanea apertura dei mercati mondiali che seguì al cambio di paradigma teorico avvenuto con l’ascesa di Margaret Thatcher al governo del Regno Unito e di Ronald Reagan a quello degli USA, dall’avvio della terza rivoluzione industriale (internet) e dall’adozione di container per il trasporto marittimo.
Un ruolo significativo è stato svolto però anche dalle politiche economiche introdotte dalla Cina per accompagnare la globalizzazione dei mercati—politiche industriali fatte anche di interventi pubblici e sussidi, regole sulle joint ventures, limitazioni alla mobilità dei capitali a breve termine—misure aspramente criticate, ma che ora molti Paesi stanno, almeno in parte, emulando.
Dopo anni di libero commercio i cui benefici, sotto forma di delocalizzazioni che permettevano di ridurre i costi di produzione, esportazioni in Cina di beni a medio-alto contenuto tecnologico e conseguenti elevati profitti, venivano goduti soprattutto dalle imprese multinazionali occidentali, tuttavia, l’Occidente ha iniziato a manifestare una crescente preoccupazione verso la Cina, percependo sempre più quel Paese come una minaccia, forse non a caso proprio quando quest’ultimo ha iniziato a sua volta ad esportare beni a medio-alto contenuto tecnologico e non più semplici beni ad alta intensità di lavoro non specializzato. E’ opportuno chiedersi se vi sono evidenze concrete a sostegno di tale percezione.
La storia ci offre preziose indicazioni sulle caratteristiche di quel popolo. Alcuni decenni prima della scoperta dell’America, un eunuco e ammiraglio musulmano cinese, Zheng He, comandò una flotta di 300 navi (ognuna delle quali 5-6 volte più grande di ciascuna delle caravelle con cui Cristoforo Colombo solcò l’Oceano Atlantico) in sette spedizioni navali. Questi viaggi lo condussero attraverso l’Oceano Indiano, la Penisola Arabica e fino alle coste dell’Africa orientale, ma furono interrotti dopo la sua morte, perché fu data priorità alla difesa della Cina contro le minacce mongole provenienti dal nord. La flotta fu distrutta e venne costruita la Grande Muraglia nella forma in cui oggi la conosciamo (e di cui infatti Marco Polo, nel Milione scritto quasi due secoli prima, non fa cenno).
I cinesi, inoltre, non fondarono colonie lungo il loro percorso, a differenza di quanto faranno successivamente i colonizzatori europei, seguiti da quelli giapponesi e americani.
Forse questi due esempi del passato possono dirci qualcosa sulla natura intrinseca di quel popolo e sul tipo di relazioni internazionali che tende ad instaurare, a differenza di quanto fatto dai paesi occidentali e dal Giappone.
Un’altra osservazione, semplice ma a giudizio di chi scrive significativa, è che, avendo i cinesi scoperto la polvere da sparo, non furono loro a farne un’arma di conquista e aggressione, come osserva lo storico britannico Joseph Needham (1986): “I cinesi inventarono la polvere da sparo ma la usarono principalmente per i fuochi d’artificio, mentre l’Occidente la impiegò per la guerra.”
Si potrebbe obiettare che il passato non può rassicurare sul presente. Tuttavia, Kang et al. (2025), che hanno analizzato i discorsi pronunciati da Xi Jinping e altri leader cinesi a partire dal 2013, concludono che l’attenzione della Cina è rivolta principalmente all’interno e non certo a un’espansione aggressiva verso l’esterno del paese.
Queste analisi sembrano, dunque, suggerire che la Cina non minaccia di sovvertire l’ordine internazionale liberale. Ma ciò non vuol dire che la Cina non abbia interesse ad espandere la propria area di influenza economica e non provi a farlo, non fosse altro che per l’approvvigionamento di risorse e materie prime di cui necessita il suo miliardo e quattrocento milioni di abitanti e per garantire dei mercati di sbocco alla propria produzione di merci, allo stesso modo di quanto hanno fatto per decenni, del resto, gli Stati Uniti e altri paesi occidentali. L’interesse mostrato dai cinesi verso alcuni dei Paesi dell’Africa sud-orientale, per esempio, spesso rappresentato in passato riferendosi ad un presunto fenomeno di ‘land grabbing’, ipotesi smentita da diversi lavori accademici, si è sempre limitato alla sola sfera economica di natura contrattuale.
La Cina, inoltre, è l’unico Paese ad aver dichiarato solennemente che ricorrerebbe all’arma nucleare solo in risposta a un attacco di quella natura, e non a difesa dei propri “interessi vitali”, come invece affermano tutte le altre potenze nucleari. Si tralascia anche il fatto che la Cina possiede oggi un numero stimato di circa 500 testate nucleari —il Regno Unito ne ha 225, la Francia 290, e gli Stati Uniti 5.044 (Kristensen e Korda, 2024). La sua spesa militare, infine, ammonta all’1,6% del suo PIL, meno della metà del 3,4% degli Stati Uniti (SIPRI, 2024; World Bank, 2024).
Ma a ben pensarci, non potrebbe anche la Cina sentirsi minacciata dagli Stati Uniti? O pensiamo invece, asimmetricamente, che la presunta indiscutibile buona fede degli americani debba rappresentare di per sé una garanzia sufficiente a tranquillizzare i cinesi?
Mentre la Cina mantiene una sola base militare al di fuori del proprio territorio — a Gibuti, dove ci sono anche quelle di altri Paesi — gli Stati Uniti, infatti, dispongono di circa 750 basi militari nel mondo. La collocazione di alcune di esse — in particolare davanti alla fascia costiera cinese, dal Giappone alle Filippine fino a Singapore, stato “amico” degli Stati Uniti che presidia lo Stretto di Malacca — testimonia una presenza militare che la Cina può comprensibilmente percepire come una minaccia (cosa ne direbbero gli Stati Uniti, a parti invertite?), anche perché dallo Stretto di Malacca transita circa l’80% del petrolio che essa importa, così come le sue esportazioni.
Molte delle politiche recenti adottate dalla Cina possono essere interpretate, del resto, anche come una reazione a tale timore. Tra queste vi è la Belt and Road Initiative i cui corridoi meridionali si spiegano anche con il tentativo di bypassare lo Stretto, da cui dipende, in definitiva, il benessere del popolo cinese.
Non si tratta, dunque, di decantare le virtù della Cina, magari invocando lo smantellamento delle nostre difese militari, il che potrebbe essere rischioso rispetto a azioni imprevedibili di altri; si tratta soltanto di guardare la realtà con uno sguardo libero da pregiudizi, invitando allo stesso tempo a resistere alla tentazione di lasciarsi trascinare in una nuova mentalità da “Guerra Fredda”, che potrebbe condurre a errori catastrofici e a un conflitto globale tanto distruttivo quanto non necessario.
Nel 1963, un anno dopo la crisi dei missili di Cuba, Papa Giovanni XXIII scrisse l’enciclica Pacem in Terris, alla quale il Presidente Kennedy fece riferimento in un discorso che tenne pochi mesi prima del suo assassinio (Sachs, 2013). In tale enciclica, Papa Giovanni XXIII osservava che ogni Paese, agendo senz’altro in buona fede, giustifica il proprio armamento come una misura di difesa contro minacce percepite provenienti dall’esterno. Ma allora perché non dialogare, fu la sua esortazione, offrendo reciproche rassicurazioni e rimuovendo le paure ingiustificate?
L’accettazione di quel suo semplice suggerimento fu il presupposto che portò ai negoziati tra gli Stati Uniti e l’Unione Sovietica per la riduzione delle armi nucleari: è così che il security dilemma, quella spirale perversa che si autoalimenta avvalorando i nostri timori peggiori, fu risolto.
La cooperazione che ne risultò fu, in definitiva, frutto dell’abbandono della mentalità da “gioco a somma zero”, di cui parlano spesso Leonardo Becchetti e altri autori — ossia quella concezione secondo cui, in ogni relazione tra due parti, una debba necessariamente risultare vincitrice e l’altra perdente (cfr. Becchetti e Bruni, 2016).
Tuttavia, anche l’idea di un gioco a somma positiva — ciò che i cinesi di solito definiscono una strategia win-win — potrebbe non bastare a garantire la cooperazione e eliminare i rischi di conflitto, quando i guadagni relativi vengono privilegiati rispetto a quelli assoluti. Infatti, se i benefici attesi per una delle due parti sono maggiori rispetto a quelli attesi per l’altra, il timore che la prima possa in futuro raggiungere una posizione egemonica — in ambito politico, economico e, in ultima analisi, militare — determinerà costi attesi dalla cooperazione che possono facilmente superare i vantaggi da essa derivanti.
Ci ritroviamo così al punto di partenza: come possiamo eliminare paure ingiustificate e creare le condizioni perché la fiducia reciproca emerga?
Per rispondere a questa domanda si deve, a mio avviso, richiamare la distinzione tra economia politica ed economia civile tracciata, fra gli altri, da Stefano Zamagni. L’economia politica, fondata da Adam Smith ed attualmente prevalente nella teoria economica, si fonda sull’assunto che “homo homini lupus” (“l’uomo è un lupo per l’uomo”), per cui il suo obiettivo, ragionando da homo economicus razionale, può essere solo quello di massimizzare la propria utilità monetaria. Stando così le cose, riporre fiducia nella bontà d’animo delle persone—e, per estensione, nella natura non aggressiva dei Paesi—sarebbe solo un’illusione, per cui, per esempio, l’unica soluzione capace di impedire credibilmente il verificarsi di un attacco nucleare sarebbe quella della deterrenza, derivante dal garantirsi la possibilità di rispondere con un “second-strike” (secondo colpo) ad un eventuale attacco.
L’economia civile, iniziata da Antonio Genovesi prima dell’altra, sostiene però una tesi che si riferisce ad una diversa tradizione latina, secondo la quale “homo homini natura amicus” (“l’uomo è per natura amico dell’uomo”) (cfr. anche Santori, 2020).
Anche senza correre il rischio di essere “buonisti”, si può ragionevolmente assumere che esista almeno una significativa probabilità che i governanti dei diversi Paesi abbiano interesse a garantire ai propri cittadini una convivenza pacifica con quelli degli altri, soprattutto quando gli elementi che possiamo osservare o valutare non suggeriscono il contrario, come si può desumere, nel caso della Cina, da quanto detto sopra. E l’esempio storico della crisi dei missili del 1962 è ancora lì, a darci indicazioni utili per comprendere come si possa risolvere il security dilemma cui ci troviamo di fronte: è fondamentale stabilire un quadro istituzionale che promuova la negoziazione e il dialogo continuo (il che, come già argomentato, non esclude il mantenimento delle infrastrutture difensive necessarie alla propria protezione).
In altre parole, se desideriamo la pace, creiamo istituzioni che favoriscano la pace, piuttosto che preparare la guerra (Zamagni e Zamagni, 2010).
Ma soprattutto, anche qualora ritenessimo necessario il mantenimento di un significativo apparato militare(che però, nel caso si articolasse in base al principio della deterrenza nucleare, lascerebbe sempre aperta la porta a tragici ed irreparabili malintesi ed errori), non chiudiamo in nessun caso la porta alla comprensione reciproca, al dialogo e alla negoziazione, poiché sono questi che potrebbero rappresentare le uniche condizioni davvero sufficienti a scongiurare la deflagrazione di devastanti conflitti armati.