Effetti malintesi dell’ allungamento dell’ età pensionabile*
Nelle scorse settimane si è dibattuto, con vasta eco, dell’adeguamento automatico dei requisiti anagrafici e di anzianità contributiva per il pensionamento in seguito all’allungamento atteso dell’aspettativa di vita. Tale adeguamento – che dovrebbe comportare un inasprimento non irrilevante dell’età pensionabile nei prossimi anni (dagli attuali 67 anni per la pensione di vecchiaia e 42 anni e 10 mesi per quella anticipata si passerebbe nel 2029, rispettivamente, a 67 anni e 5 mesi e a 43 anni e 3 mesi) – fu introdotto dalle riforme del 2010-2011, per poi essere bloccato temporaneamente (fino al 2026) nel 2019.
Al centro del dibattito c’è la tesi che l’inasprimento dei requisiti sia necessario per conseguire risparmi nella spesa pensionistica e per ottenere un aumenta della durata della vita attiva, a fronte dell’allungamento della longevità. Non diversamente da altri, questo dibattito appare mal posto, nonché poco utile. Per convincersene può essere sufficiente una rapida sintesi delle principali caratteristiche del nostro sistema pensionistico che sembrano sfuggire a molti dei partecipanti al dibattitto, anche sul versante politico, il cui ragionamento sembra, per molti versi, ancorato a caratteristiche e implicazioni del vecchio sistema retributivo nonostante il flusso delle nuove pensioni sia ormai in misura prevalente calcolato mediante la formula contributiva.
Nel precedente sistema, come noto, l’importo della pensione non dipendeva dall’età di ritiro, ma dalla lunghezza della contribuzione e dal salario di fine carriera. Ciò comportava di fatto l’esistenza di un’elevata tassa implicita al proseguimento dell’attività lavorativa (nella gran parte dei casi, ogni anno di lavoro in più accresceva l’importo della pensione attesa di un valore ben inferiore all’annualità di pensione a cui si rinunciava rimandando il pensionamento) e, di conseguenza, generava un forte incentivo monetario a uscire dal mercato del lavoro il prima possibile. Per questa ragione, nei sistemi retributivi, per garantire risparmi di bilancio e incentivare l’allungamento della vita attiva, è fondamentale la regolazione dell’età pensionabile, in primis di fronte ad aumenti della longevità (in alternativa, per indurre a restare al lavoro, si possono concedere bonus fiscali, come il cosiddetto “bonus Maroni”, che sono però costosi per il bilancio pubblico).
Queste problematiche relative all’età pensionabile furono però cancellate dalla riforma del 1995 che, introducendo la formula di calcolo contributiva, rappresentò un cambiamento radicale, di cui sembra esservi però ancora limitata consapevolezza. Nel contributivo (che si applica, pro quota, per gli anni di lavoro successivi anche a chi era attivo nel 1995 da meno di 18 anni) l’importo della pensione dipende dal montante (figurativo, essendo il sistema a ripartizione) dei contributi versati durante l’intera carriera (ai quali si applica un tasso di rendimento legato alla crescita del PIL) che, in base ad appositi “coefficienti di trasformazione”, viene convertito in rate di pensione. Tali coefficienti variano a seconda dell’età di ritiro, rendendo l’importo della pensione dipendente dal numero di anni per i quali (in media) ci si attende che verrà percepita. Dunque, a parità di montante, più tardi ci si ritira più alta sarà la pensione, dato che sarà ricevuta, in media, per un numero minore di anni. Per “sterilizzare” la dinamica della spesa pensionistica questi coefficienti vengono inoltre rivalutati ogni due anni in modo da tenere conto dell’eventuale allungamento dell’aspettativa di vita. Quindi l’aggiustamento automatico dei coefficienti di trasformazione rende meno conveniente il ritiro anticipato nel caso in cui la vita attesa cresca e, dunque, la pensione si riduca.
In breve, le tecnicalità della formula contributiva consentono di non fissare un’età di pensionamento predefinita, né, tantomeno, di innalzarla quando la longevità cresce, senza creare rischi per il bilancio previdenziale e senza disincentivare l’offerta di lavoro degli anziani. Quando la vita attesa cresce, infatti, i coefficienti vengono rivisti al ribasso e ciò, da un lato, consente di tenere sotto controllo la spesa per pensioni – adeguando gli importi alla durata della vita residua al pensionamento – e, dall’altro, incentiva la prosecuzione dell’attività per beneficiare dei più elevati coefficienti di trasformazione che si applicano a chi si ritira ad età più elevate.
In coerenza con le proprietà della formula contributiva qui accennate, la riforma del 1995, disegnata prendendo a riferimento modelli teorici tesi a garantire – con l’applicazione di regole attuariali – l’equilibrio di bilancio, non prevedeva – per chi apparteneva interamente allo schema contributivo – alcun aggiustamento dell’età pensionabile né una lunghezza minima della carriera, ma consentiva di pensionarsi, in base alle preferenze individuali, fra i 57 e i 65 anni purché fossero stati versati almeno 5 anni di contributi e fosse maturato il diritto a una pensione pari ad almeno 1,2 volte l’assegno sociale. Per tenere in equilibrio il sistema previdenziale a fronte di shock demografici, non occorreva, dunque, fissare elevate età pensionabili o prevedere il loro aggiustamento automatico, dato che il contributivo, grazie alle regole attuariali su cui si basa, già include un meccanismo automatico di adeguamento alle mutate condizioni demografiche.
È importante sottolineare che le regole del contributivo fanno sì che il saldo “intertemporale” (di “competenza”) del bilancio pensionistico – la differenza fra quanto una generazione versa come contributi e quanto riceve come pensioni – non dipenda più dall’età pensionabile, che finisce, dunque, per avere effetti unicamente sull’adeguatezza della prestazione che si riceve (tanto maggiore quanto più ci si pensiona tardi). Data una certa età, ritirarsi prima o dopo tale età implica che la rata di pensione si ridurrà o crescerà proporzionalmente senza effetti sull’equilibrio di bilancio “intertemporale” (che, nel contributivo, risulta tendenzialmente sempre realizzato).
Tuttavia, anche in uno schema contributivo, ritardare l’età di pensionamento può avere effetti sul bilancio “di cassa” nel breve periodo; infatti, aumentano le entrate grazie ai maggiori contributi versati mentre non crescono le uscite per pensioni. Ed è per questo, cioè per recuperare risorse nel breve periodo, che lo schema prima delineato è stato successivamente stravolto. Si è, infatti, scelto di cancellare la flessibilità dell’età pensionabile nel contributivo, prevedendo, anche in tale schema, un aggiustamento automatico dei requisiti per la pensione, reintroducendo il limite minimo dei 20 anni di anzianità e, addirittura, consentendo di ritirarsi prima dell’età legale solo a chi ha una pensione di importo medio-alto (pari ad almeno 3 volte l’assegno sociale) e, dunque, ha, presumibilmente, un lavoro maggiormente gratificante e minori difficoltà a proseguirlo. Diviene così evidente il collegamento con il tema da cui siamo partiti.
Il legislatore, con l’obiettivo di ottenere qualche risparmio per il bilancio pubblico, continua ad agire sulla leva dell’età pensionabile ignorando, da un lato, gli effetti automatici dell’allungamento dell’aspettativa di vita sui coefficienti di trasformazione e, dall’altro, che il trascorrere degli anni implica la progressiva crescita di peso della quota contributiva (ad esempio, è 2/3 per chi ha iniziato a lavorare nel 1981 e si ritira nel 2025) e la parallela riduzione dei risparmi consentiti dall’allungamento dell’età pensionabile.
Come già sostenuto sul Menabò il legislatore, se comprendesse a fondo cosa è cambiato con il passaggio al contributivo, anziché agire su incrementi cogenti dell’età pensionabile dovrebbe reintrodurre quella fascia di pensionamento flessibile erroneamente cancellata (ad esempio, a partire dai 63 anni di età, come in Svezia), stabilendo, al contempo, una riduzione attuariale sulla (minoritaria e residua) quota di pensione retributiva, in modo da evitare squilibri nel bilancio pubblico “di competenza”.
Aumentare di continuo l’età pensionabile è, dunque, nel contributivo ridondante e, anzi, potrebbe comportare ricadute negative sull’efficienza del sistema economico (costringendo al lavoro individui poco produttivi) e sull’equità, non avendo tutti le stesse opportunità di prosecuzione dell’attività.
In tema di equità si può invece osservare che la riforma del 1995 non prevede forme di tutela minima per chi abbia vite lavorative lunghe ma poco remunerative e con molti “buchi”. Un’eventualità, questa, forse difficile da considerare nel 1995, ma di certo rilevante ormai da molti anni. D’altro canto, la scelta allora compiuta di eliminare vincoli rigidi all’età pensionabile è favorevole all’equità in un sistema economico-sociale, come quello italiano, in cui è molto forte l’eterogeneità nelle condizioni di vita e lavoro degli anziani. Reintrodurli equivale anche a ignorare quella eterogeneità oltre che, per il modo in cui viene fatto, a spianare la strada a qualche bizzarria. Sembra tale quella per cui l’allungamento dell’età di pensionamento è esattamente uguale a quello della vita attesa, cioè la vita in più deve essere trascorsa interamente lavorando; per fare un esempio, se l’aspettativa di vita media alla nascita passasse dagli attuali circa 83 anni a 100, l’età di pensionamento per vecchiaia aumenterebbe da 67 a 84 anni e la quota di vita complessiva trascorsa da pensionato passerebbe dal 19,3% al 16,0%. Una bizzarria rinforzata dalla mancata considerazione dell’andamento dell’aspettativa di vita in buona salute (che cresce meno della longevità), nonché delle differenze molto marcate nella vita attesa e nella sua crescita fra individui in diverse condizioni socioeconomiche. Ciò aggrava le carenze della formula contributiva che, basandosi sull’aspettativa di vita media, ha il difetto di redistribuire da chi vive di meno a chi vive di più, ovvero, in media, dai meno ai più abbienti.
La mancata considerazione delle caratteristiche della formula contributiva è peraltro evidente qualora si rifletta sul fatto che tuttora il dibattito continua a incentrarsi sulla riduzione dell’età di ritiro anche come forma di tutela degli occupati più vulnerabili. Ma, nel contributivo, tali individui andrebbero tutelati consentendo loro di beneficiare, ad ogni età, di coefficienti di trasformazione più elevati, altrimenti la sola riduzione dell’età pensionabile genererebbe una diminuzione della pensione erogata.
Una riflessione approfondita sui cambiamenti istituzionali che hanno interessato il nostro sistema pensionistico e sulle loro implicazioni servirebbe, dunque, a sgombrare il campo dall’annosa e divisiva questione dell’età pensionabile Ci si potrebbe allora finalmente dedicare a questioni più impellenti tra le quali primeggia quella delle adeguate tutele da offrire alle molte vittime di un mercato del lavoro poco inclusivo e remunerativo. Ma per fare questo condizione necessaria è che la classe politica abbandoni schemi di ragionamento ormai desueti.
* Una versione più sintetica di questo articolo è comparsa sul quotidiano Domani del 18 febbraio scorso