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DAVIDE VS GOLIA, GLI OPERAI PRECARI BATTONO GLI ARTIGIANI DELLA PRECARIETÁ*

Ai lavoratori di Giuliani Arredamenti e alla loro straordinaria lotta

La lotta paga! Un vecchio adagio del movimento operaio e sindacale si mostra nella sua attuale concretezza nella vertenza che ha interessato i lavoratori della Giuliani Arredamenti di Forlì. Dopo 16 giorni di sciopero ad oltranza, condotto con coraggio e determinazione da oltre 80 lavoratori somministrati presso quella azienda “artigiana” dell’indotto di PoltroneSofà, con un accordo sindacale si ottiene la stabilizzazione di buona parte del personale precario, il miglioramento dei salari e la definizione di criteri per la continuità occupazionale dei lavoratori a termine.

Ma come si è arrivati all’intesa? Come hanno fatto gli operai a battere l’azienda dell’indotto alla cui testa c’è il colosso del mobile imbottito PoltroneSofà?

Negli ultimi decenni, l’impresa del patron forlivese Renzo Ricciha imbarcato testimonial del calibro di Sabrina Ferilli, Luciana Littizzetto, Alessandro Del Piero, Amadeus (a Sanremo) e Mara Maionchi, per le sue campagne pubblicitarie; per questo non ha badato a spese, tanto che nel 2024, secondo le informazioni disponibili, sembra avere investito in pubblicità oltre 54 milioni di euro. Attori, presentatori e sportivi hanno prestato volto e parole al marchio forlivese del mobile imbottito, che a prezzi imbattibili, “ma fino a domenica prossima”, promette divani di qualità insuperabile con un battage martellante che imperversa su tutti i canali televisivi.

Non altrettanto, però, ha speso per remunerare il lavoro di chi quei divani li realizza: lavoratori e lavoratrici che operano nelle diverse aziende della sua filiera produttiva. D’altronde, PoltroneSofà è un’azienda commerciale senza alcuna produzione diretta, tanto da aver concluso nel 2022 con l’Ufficio repressione frodi commerciali francese (in Italia le autorità si sono concentrate su pubblicità ingannevole rispetto ai prezzi), una transazione da 800mila euro per aver usato falsamente la nozione di “artigiano”. A ben vedere, non sono artigiani neanche quelli che i divani li producono, come è appunto bene illustrato dalla vertenza sindacale che ha interessato uno dei fornitori del noto marchio forlivese, Giuliani Arredamenti.

Giuliani è, appunto, uno degli anelli della filiera che fa capo a PoltroneSofà. Anzi, uno degli anelli chiave, visto che si può considerare un hub produttivo: ha l’incarico di realizzare alcune parti del divano, altre vengono appaltate a terzi, spesso microaziende del territorio. Il tutto viene poi assemblato, spedito e, infine, commercializzato e messo in vendita da PoltroneSofà attraverso la sua rete di negozi.

Da Giuliani lavorano circa 150 addetti, così composti alla metà di aprile scorso: 11 alle dirette dipendenze, 10 persone coinvolte in tirocini extracurriculari (che dovrebbero essere in formazione), 130 somministrati (ex interinali) dalle agenzie per il lavoro, Gi Group (una decina) e Etjca (la restante parte dei lavoratori). Di fatto, oltre il 90% degli addetti sono (o meglio erano) personale da non conteggiare ai fini della qualificazione d’impresa artigiana per la quale sono necessari alcuni requisiti, quali la diretta partecipazione dell’artigiano all’attività produttiva e limiti dimensionali della forza lavoro (non più di 32 dipendenti). A consentire il rispetto di quest’ultimo requisito era proprio l’impiego di personale “svantaggiato” (che, con il Decreto del ministro del Lavoro e delle Politiche sociali del 17 ottobre 2017 è individuato, ai sensi dell’art. 31, comma 2, del D.lgs. n. 81/2015, in conformità al Regolamento UE n. 651/2014) che consente – proprio in virtù della condizione soggettiva dei lavoratori – di superare la percentuale di lavoratori somministrati presso un’impresa utilizzatrice, di regola non più del 50% del personale a tempo indeterminato diretto. Quasi tutti i lavoratori di Giuliani, infatti, sono lavoratori non italiani, disoccupati (in origine) e/o senza titolo di studio riconosciuto, rientranti quindi nelle ampie casistiche dello svantaggio. In questo modo, Giuliani manteneva lo status di impresa “artigiana” – con i suoi non disprezzabili vantaggi come l’applicazione di un contratto collettivo nazionale meno oneroso dal punto di vista salariale, benefici fiscali e creditizi – potendo in realtà contare sulla capacità produttiva di un’impresa “normale”.

Sono da sottolineare, da questo punto di vista, anche le responsabilità delle agenzie per il lavoro che hanno collocato per anni presso Giuliani il personale in somministrazione senza verificare i requisiti formali per la “fornitura” e le effettive condizioni di lavoro, abdicando di fatto alla funzione di datore di lavoro che la legge assegna loro.

Da Giuliani i lavoratori erano somministrati da anni, il più “vecchio” da 13, spesso dopo aver fatto lì anche apprendistato e tirocinii extracurriculari, in barba alle norme che regolano questi strumenti. Salari bassi appena sopra i mille euro mensili per un full time, con inquadramenti non corretti, straordinari non pagati o pagati utilizzando i buoni pasto, mentre il ricatto del mancato rinnovo del contratto a termine in caso di malattia o di richiesta di ferie era la normalità; in caso di infortunio nessuna denuncia e frequente “trasformazione” degli incidenti in semplici periodi di malattia, con il serio rischio di essere lasciati a casa al termine dello stesso periodo. La vertenza ha fatto emergere condizioni igieniche inaccettabili (servizi igienici non funzionanti all’interno dello stabilimento e una vera e propria latrina al di fuori di esso), mancata fornitura o inadeguatezza dei dispositivi di protezione individuale.

Dopo anni di sopportazione e di promesse mancate, la goccia che fa traboccare il vaso è, il 14 aprile, la consegna della busta paga: sempre il solito salario insufficiente, straordinari non pagati e contratti in scadenza. A quel punto, nonostante il rischio di perdere il lavoro che consente loro di restare legalmente nel nostro paese, circa 80 lavoratori somministrati, tutti immigrati, decidono di uscire dalla fabbrica e iniziano lo sciopero chiedendo l’intervento di NIdiL CGIL, che si attivava immediatamente assieme alla Fillea e alle altre organizzazioni confederali. Inizia così una protesta che riduce in maniera importante la capacità produttiva dell’azienda e proponeva una piattaforma rivendicativa per la stabilizzazione dei lavoratori, l’applicazione di un contratto collettivo diverso da quello artigiano, il miglioramento delle condizioni igienico sanitarie, l’applicazione della legge sulla sicurezza dei lavoratori, il superamento di modalità discriminatorie superando differenziazioni di trattamento tra lavoratori italiani e non e tra gli stessi lavoratori immigrati in base al criterio della fedeltà all’impresa.

La risposta dell’azienda allo sciopero è di pura opposizione, nessuna vera trattativa ma solo contatti infruttuosi. Lavoratori e sindacato si attrezzano per resistere a lungo: viene allestito un presidio permanente, anche notturno, bloccando il normale approvvigionamento di materiale e l’uscita del prodotto finito. E si attiva la solidarietà: vengono forniti regolarmente i pasti agli scioperanti grazie a una ‘Cassa di resistenza’ e viene chiesto il coinvolgimento delle istituzioni locali e regionali, degli organi di vigilanza e del prefetto. Il sindacato apre un conto corrente dove far affluire contributi destinati a sostenere la lotta dei lavoratori. Da questo punto di vista è importante segnalare l’innovatività di questa vertenza: quello delle Casse di resistenza è infatti uno strumento di sostegno e solidarietà molto presente nella tradizione delle organizzazioni del nord Europa, ma poco in Italia.

Proprio in sede prefettizia si realizza il primo incontro ma la risposta aziendale e della locale CNA è inizialmente negativa; gli spazi per una trattativa sembravano non esserci. I lavoratori rimagono però determinati e non si spaventavano anche se, dopo due settimane di sciopero, la stanchezza e l’assenza di una prospettiva negoziale si fanno sentire. Il sostegno e la solidarietà di tutti i livelli del sindacato, nonché delle istituzioni locali, favoriscono tuttavia la tenuta della vertenza, mentre l’attenzione mediatica locale e, in qualche caso nazionale, cresce.

La svolta avviene tra lunedì 28 e martedì 29 aprile. Dopo un altro incontro richiesto dal prefetto, che ha svolto un positivo ruolo di stimolo alla ricerca di una soluzione, si apre un tavolo di trattativa che vede il coinvolgimento dell’impresa e di un consulente senza la presenza dell’associazione datoriale. L’esito dell’incontro è positivo: il 29 aprile azienda e organizzazioni sindacali definiscono un’intesa che prevede l’assunzione diretta e immediata di 50 lavoratori già somministrati, la successiva stabilizzazione nell’arco di 4 mesi di ulteriori 34 persone, la proroga dei lavoratori con contratto a termine in scadenza al 30 aprile, la costituzione di un bacino di prelazione che con il diritto di precedenza per la riassunzione dei lavoratori a tempo determinato e spazi aziendali per le assemblee sindacali. Il tema della salubrità del luogo di lavoro e della sicurezza viene rimessa al rispetto delle norme di legge previste. L’assemblea dei lavoratori in sciopero tenutasi il 30 aprile 2025 approva all’unanimità l’accordo e delibera di tornare al lavoro il successivo 2 maggio.

Si chiude così, positivamente, dopo 16 giorni di sciopero e di presidio, una vertenza di straordinaria importanza che travalica il contesto locale per una serie di ragioni.

La prima è che la determinazione e il coraggio dei lavoratori, connessi alla capacità e alla volontà delle organizzazioni sindacali, come quella dimostrata dalle strutture del territorio di Forlì Cesena coordinate dalla Confederazione, possono ottenere grandi risultati, anche in contesti particolarmente complicati. Su questo è da considerare che il caso della Giuliani è uno dei rari esempi di lotta che nasce non in contesto di crisi ma in una situazione di drammatica “normalità” di sfruttamento lavorativo dove tutti i lavoratori sono migranti, peraltro di diverse etnie.

La seconda è l’importanza di un contesto istituzionale locale, in cui Comune, Regione e Prefettura sono stati capaci di avere un ruolo di sostegno e stimolo alla costruzione di un accordo ma anche di tenuta democratica e di difesa della legalità.

La terza è che viene messo nuovamente in luce il fatto che le norme di liberalizzazione del mercato del lavoro non solo non hanno favorito la qualità dell’occupazione ma, al contrario, tendono a facilitare l’adozione di spregiudicate pratiche di sfruttamento; inoltre, come suggerito autorevolmente (E.B. Hoffmann, D. Malacrino e L. Pistaferri, “Labor Market Reforms and Earnings Dynamics: The Italian Case” , IMF Working Paper, 2021) la flessibilità, lungi dal garantire più sicurezza ai lavoratori, ha sostenuto nel nostro Paese il nanismo industriale. Su questo, il caso appena descritto è da manuale. Appare evidente come andrebbe radicalmente modificato l’assetto del mercato del lavoro in funzione di una maggiore protezione di lavoratrici e lavoratori.

La quarta ed ultima ragione è che in quel distretto forlivese del mobile imbottito dove l’80% delle aziende ha un unico committente (PoltroneSofà) e una catena di terzisti, il caso Giuliani è solo la punta dell’iceberg. Sotto la superficie vi sono circa 180 imprese e 5mila lavoratori. Chi è al vertice della catena commerciale di quei manufatti, PoltroneSofà, non può far finta di niente. Tanto più se è vero che l’azienda è in piena salute (42 milioni di utili nel 2023). Accanto a questo mercato di basso profilo largamente maggioritario, nella stessa realtà territoriale esiste poi una produzione del divano lusso con lavoro tutelato e ben remunerato, il “salotto buono” si potrebbe dire, che è la vetrina dei marchi. Questa situazione di catene produttive/commerciali lunghe, tanto da far fatica a ricostruirne struttura e vertice, dove spesso si annidano lavoro povero, precarietà, insicurezza e sfruttamento non è circoscrivibile né a questo settore né a questa provincia ma è diffusamente presente in tutto il territorio nazionale e costituisce uno dei campi di azione di frontiera per il sindacato.

Verrebbe da dire che la vertenza Giuliani è il migliore spot possibile per cinque Sì ai prossimi referendum: in essa si concentrano, infatti, le criticità del lavoro, povero, precario e insicuro dentro la catena degli appalti, e la condizione di chi vive in Italia senza cittadinanza e sotto ricatto da anni.


* Si ringraziano per la collaborazione Andrea Merendi, segretario generale NIdiL CGIL Forlì Cesena, e Maria Giorgini, segretaria generale di quella Camera del Lavoro, che in questa vertenza hanno saputo mettere in campo il meglio dello spirito e dell’azione del sindacato confederale.