Finanza

Welfare, lavoro e sostenibilità ecologica nella doppia transizione

La transizione ecologica e digitale (la cosiddetta doppia transizione) è oggi più che mai al centro del dibattito politico e sociale. La direzione di marcia è tuttavia molto diversa da quella che avremmo immaginato fino a ieri. Le politiche di Donald Trump e l’avanzata in Europa di partiti apertamente ostili al Green Deal ci mettono di fronte a un ribaltamento di priorità. Se fino al più recente passato la corsa al “disaccoppiamento” tra crescita e fonti fossili era comunemente accettato, assistiamo invece sempre di più a chiusure, proteste e anche spinte politiche in direzione diametralmente opposte. Esistono evidenze empiriche che mostrano come l’adozione di misure per salvaguardare l’ambiente generano spesso reazioni negative – una sorta di malcontento verde, soprattutto nelle aree che già sperimentano una condizione di vulnerabilità. Non a caso, diverse ricerche (si vedano ad esempio gli studi del geografo economico Andrés Rodríguez-Pose) mettono in evidenza come è proprio nei territori più periferici e in cui tendono ad allargarsi i divari rispetto alle aree core dello sviluppoche c’è più tolleranza per i modelli di sviluppo estrattivi che, ad esempio, degradano l’ambiente, ma che rappresentano un ancoraggio certo in tempi di rapidi cambiamenti di vasta portata che appaiono incerti.

La concatenazione tra questioni ambientali, sociali, economiche è dunque molto più che un problema di politiche per lo sviluppo sostenibile e misure per non lasciare indietro i potenziali “scontenti”. E’ la cartina di tornasole per misurare interessi, reazioni, trasformazioni strutturali di più lungo periodo che stanno radicalmente modificando i sistemi produttivi, con effetti che fanno intravedere, accanto a opportunità di modernizzazione, anche nuove disuguaglianze e forme emergenti di sradicamento sociale che generano paure, insicurezze, chiusure, specie tra le fasce di popolazione che più avvertono la minaccia di perdere gli status acquisiti o essere penalizzati da cambiamenti che sentono di non poter controllare. Mentre la retorica dominante presume una “marea” che solleva tutte le barche, le evidenze mostrano un quadro molto diverso.

E’ in questo quadro che si colloca il volume: Verso un nuovo patto sociale. Lavoro, welfare e sostenibilità ecologica nella transizione ecologica e digitale (Donzelli 2025). Il welfare di cui ci si occupa in questo volume guarda a una fase nuova caratterizzata dall’emergere di una terza generazione di rischi (eco-sociali) che si vanno ad aggiungere a quelli preesistenti. Qui il problema non è più coniugare crescita e coesione sociale, come è stato ad esempio nella prima parte degli anni Duemila, ma rendere compatibile la transizione ecologica e digitale con la salvaguardia, tanto della coesione sociale, quanto della sostenibilità ambientale. Il quadro teorico dell’analisi si colloca all’interno degli emergenti filoni di letteratura sul cosiddetto welfare eco-sociale (M.Ferrera, J. Mirò e S. Ronchi, Social Reformism 2.0: Work and welfare transformations in the climate crisis: A research pathway towards an ecological, just transition | Sociologia del lavoro – Sezione Open Access, 2023; M. Benegiamo, P. Guillibert e M. Villa, Work and welfare transformations in the climate crisis: A research pathway towards an ecological, just transition | Sociologia del lavoro – Sezione Open Access, 2023) non limitandosi però a identificare i fattori di tenzione tra la sfera economica, quella sociale e quella ambientale. L’obiettivo del volume è anche quello di identificare ambiti di intervento che possano contribuire a rendere desiderabile per tutti la transizione. O per lo meno per la maggior parte della popolazione che, stanti così le cose, rischia di pagarne i costi sociali più alti.

Quali misure, dunque, adottare per favorire un welfare sostenibile al crocevia tra bisogni economici, sociali ed ecologici? E come dare risposta ai nuovi bisogni sociali, contribuendo al tempo stesso a mitigare le esternalità ecologiche della crescita? A questo fine e senza la pretesa di esaustività nel volume sono discusse tre sfere d’intervento che tendono o dovrebbero tendere ad acquisire una maggiore rilevanza in chiave eco-sociale: i servizi di base universali; le politiche per la creazione diretta di posti di lavoro in settori utili ai bisogni insoddisfatti dei territori; l’integrazione dei bassi salari come trasferimento strutturale, ovvero non limitato a fasi di crisi o shock occupazionale, e soprattutto “portabile”, vale a dire da utilizzare o in aggiunta al salario di mercato (quando è al di sotto della soglia del lavoro povero) oppure in sfere di attività fuori mercato compatibili con gli obiettivi della infrastrutturazione di base universale.

Nel loro insieme, queste sfere definiscono i contorni di un “moltiplicatore” (un concetto utilizzato per dare conto dei rapporti di reciproco rinforzo tra sfere diverse di regolazione sociale) che inizia, per l’appunto, con il sostegno agli investimenti sui servizi di base universali, i cosiddetti “Universal Basic Services” (I. Gough, Two scenarios for sustainable welfare | etui, 2021) – istruzione, sanità, cura, casa, salvaguardia del territorio, trasporti. Questi investimenti rispondono a un duplice obiettivo. In primo luogo, garantire una base universale di diritti incomprimibili per tutti, non condizionati né a criteri di meritevolezza, né a prove dei mezzi. In secondo luogo, incentivare la domanda interna, in particolare quella territoriale di beni e servizi collettivi, in alternativa ai processi di privatizzazione e alla crescita trainata dall’export e dai soli consumi individuali come anche W. Streeck (Globalismo e democrazia. L’economia politica del tardo neoliberismo – Wolfgang Streeck – Libro – Feltrinelli – Campi del sapere | Feltrinelli, 2024) ha di recente sottolineato. In ultimo, possiamo aggiungere che la fornitura a costi accessibili di servizi di base aumenta lo stesso potere d’acquisto delle persone, specie dei gruppi sociali più deboli, rendendo il loro tenore di vita meno dipendente dai prezzi di mercato.

Ma non è solo questo che rende desiderabile lo sviluppo dei servizi di base. Nella misura in cui sono anche parte di una strategia territoriale occupazionale, ovvero oggetto di interventi per creare lavoro a partire dalla risposta ai bisogni insoddisfatti di un territorio, è possibile favorire la creazione di posti di lavoro in settori che sono cruciali ai fini di una transizione sostenibile. Si tratta di bisogni sociali, ambientali, culturali, legati a filiere produttive territoriali di prossimità che hanno una alta utilità sociale e ambientale, ma spesso condizionati in negativo dalla loro bassa produttività economica e di conseguenza dai bassi salari per via del loro carattere relazionale e di prossimità. Il mito della produttività (economica) a tutti i costi spinge in direzione della marginalizzazione e disintermediazione di queste economie di prossimità che si basano sulla interazione tra le persone, la relazionalità, la reciprocità più che sul ritorno economico immediato della produzione. Ma anche questo è uno dei fronti di insostenibilità del modello sociale ed economico dominante, l’idea cioè che il lavoro buono sia solo quello produttivo aldilà dell’utilità sociale e ambientale che incorpora.

Il terzo ambito di intervento su cui viene attirata l’attenzione si colloca al crocevia tra redistribuzione del reddito e forme di “co-produzione” territoriale finalizzate alla realizzazione del benessere individuale e collettivo. Esso riguarda il sostegno ai bassi salari, da intendersi, non come complemento al reddito temporaneo (come è ad esempio nel caso degli ammortizzatori sociali e dei redditi minimi garantiti come politiche di contrasto alla povertà), bensì come integrazione strutturale al reddito. In contesti segnati in negativo dalla presenza di larghe sacche di lavoro povero, queste integrazioni rispondono alla necessità di sostenere i bassi redditi, potendo essere utilizzate secondo due alternative a scelta dei beneficiari: o in aggiunta al salario di mercato, se questo è al di sotto della soglia di riferimento del lavoro a bassi salari – comunemente fissata al 60% della mediana delle retribuzioni annuali – o, in alternativa, in forme di co-produzione fuori mercato liberamente scelte, utili all’economia sociale territoriale e quindi alla cura del territorio, alla salvaguardia e tutela ambientale, alla riproduzione sociale, salute, cura, beni comuni territoriali. Ci sono, tuttavia, anche dei rischi da evitare. Il primo è che queste integrazioni, quando vengono scelte in aggiunta al salario, si trasformino in un trasferimento surrettizio alle imprese, per pagare di meno il lavoro di mercato. Per evitare questo effetto perverso è necessario il salario minimo, che, come è noto, serve non ad alzare genericamente le retribuzioni, ma a non farle scendere troppo in basso. Il secondo rischio riguarda il rapporto con le attività fuori mercato. Quando sono utilizzate come forma di riconoscimento per l’impegno fuori mercato, esse possano diventare un modo per sostituire o pagare meno il lavoro sociale nelle organizzazioni di terzo settore. Proprio per questo motivo è importante definirne confini e limiti per non innescare processi di dumping salariale, valorizzando invece gli spazi di partecipazione liberamente scelta dai cittadini.

Il neoliberismo ha fortemente depotenziato la carica civica della partecipazione, così come la possibilità di immaginare qualcosa di diverso dallo status quo. La sua egemonia non ha ridotto infatti solo lo spazio della redistribuzione pubblica. Ha anche depoliticizzato quello della società civile sussunta all’interno di un discorso egemonico tutto orientato a “fare di più con di meno” (do more with less), cioè con meno spesa pubblica e più innovazione degli attori sociali, vista come alternativa ai servizi pubblici. Ma proprio per questo motivo appare necessario ripensare gli strumenti delle politiche economiche e sociali in funzione di una transizione giusta e desiderabile sul piano della qualità della vita, del benessere ecologico e sociale, dell’accessibilità ai beni e servizi collettivi, della qualità e utilità dell’occupazione creata, in ultimo, ma non meno importante, per quello che riguarda la possibilità di prendere parte alla costruzione del proprio benessere individuale e collettivo.