Il prezzo dell’attenzione: la tassazione dei ricavi da pubblicità digitale
Tre ore al giorno: è il tempo medio dedicato ai social media, piattaforme il cui modello di business si fonda su un preciso meccanismo economico. L’obiettivo è massimizzare l’engagement degli utenti – il tempo speso e l’interazione con i contenuti – perché questo genera una grande quantità di dati comportamentali. Questi dati alimentano algoritmi che perfezionano la profilazione individuale, permettendo alle piattaforme di vendere agli inserzionisti spazi pubblicitari ‘iper-mirati’ e quindi estremamente redditizi.
Tale modello è sicuramente molto profittevole per le piattaforme digitali: nel 2025 i profitti ottenuti dalla vendita di spazi pubblicitari dalle due principali imprese del settore, Alphabet (YouTube) e Meta (Instagram e Facebook) sono stimati a quasi 400 miliardi di dollari (per intendersi, con i profitti di un anno potrebbero comprare in borsa le prime tre imprese italiane: Unicredit, Intesa e Enel). Ma qual è il suo impatto sul benessere sociale? Una letteratura empirica in crescita (Braghieri et al., in American Economic Review, 2022; Bursztyn et al., NBER WP 311771, 2023) associa il modello di business fondato sulla massimizzazione dell’engagement (ovvero della presenza attiva sulle piattaforme) ad esiti negativi, quali l’incremento di ansia e depressione soprattutto fra i giovani e la radicalizzazione del dibattito pubblico.
Proprio contro queste esternalità negative, autori quali Romer (2021) o Acemoglu e Johnson (2024), hanno avanzato una proposta radicale: introdurre un’imposta sui ricavi derivanti dalla vendita di pubblicità digitale, sufficientemente elevata da rendere antieconomico il circolo ‘più engagement – più dati – più ricavi’, e da spingere così i colossi del Tech verso modelli alternativi, come quelli basati sull’abbonamento (subscription), in cui l’utente paga per i servizi offerti, e la piattaforma non è autorizzata ad estrarre dati personali per uso commerciale.
Questa proposta, tuttavia, ha incontrato una forte opposizione, soprattutto da parte dei giganti digitali, ed è al centro di un dibattito molto acceso. I detrattori sostengono che una tassa di questo tipo si tradurrebbe in un aumento dei costi per le aziende che acquistano pubblicità, onere che verrebbe poi scaricato sui consumatori sotto forma di prezzi più elevati, assumendo così i caratteri di un’imposta regressiva. Un altro argomento, spesso utilizzato, è il suo potenziale effetto sproporzionato e controproducente: potrebbe forse essere sostenibile per i colossi del tech, ma rischierebbe di soffocare le piccole e medie imprese che dipendono dalla pubblicità digitale per competere, nonché l’ecosistema dei creatori di contenuti che fondano su di essa la loro sopravvivenza. Critiche ulteriori vertono sulle difficoltà di implementazione, che sorgono già a definire la “pubblicità digitale” e riguardano anche il rischio di doppia tassazione internazionale. L’esperimento, per quanto limitato, dello stato del Maryland – che ha introdotto una tassa simile per finanziare l’istruzione, finendo però immediatamente in una selva di contenziosi legali – dimostra quanto sia complesso tradurre il principio in pratica.
In un recente lavoro (“Taxing Digital Advertising Revenue”,2025) ci siamo proposti di far luce su alcuni aspetti cruciali di questo dibattito. Il modello sviluppato, in particolare, offre un quadro formale per analizzare l’efficacia dello strumento fiscale e le sue interazioni con le scelte strategiche delle piattaforme, come l’adozione del modello “pay or consent”, aiutando a valutare la solidità di alcune delle obiezioni sollevate.
Nel modello, una piattaforma offre un servizio agli utenti e sceglie un’intensità di estrazione dei dati personali x (tra zero e uno). Gli utenti godono del servizio offerto, ma soffrono un costo per la cessione dei propri dati, diverso da individuo ad individuo. Il conflitto d’interesse alla base del problema può essere modellato attraverso due parametri cruciali. Il primo, il “data squeezing” (), cattura l’efficacia tecnologica e algoritmica con cui la piattaforma trasforma ‘like’ e condivisioni in informazioni commerciali preziose. Un
più elevato permette una segmentazione di mercato più fine e, dunque, annunci più mirati e redditizi, aumentando i ricavi dalla pubblicità digitale. Il secondo parametro, la “preoccupazione per la privacy” (
), descrive invece, con riferimento all’intera popolazione, la distribuzione della sensibilità degli utenti alla cessione dei propri dati. Un
basso indica un’utenza mediamente più sensibile.
Il modello dimostra che, in un contesto di business basato esclusivamente sulla vendita di spazi pubblicitari mirati (“Pure Advertising”), la piattaforma bilancia questi due fattori, scegliendo un’intensità di estrazione dei dati che massimizza il profitto, ma che risulta sistematicamente superiore al livello di estrazione socialmente ottimale. Ciò avviene perché i costi privati in termini di perdita di benessere degli utenti non sono internalizzati nel processo decisionale della piattaforma.
La proposta di tassare i ricavi dalla pubblicità digitale mira ad alterare questo calcolo. L’analisi identifica una soglia fiscale minima necessaria a indurre il passaggio a un modello ad abbonamento (“Pure Subscription”). Tale soglia è tanto più bassa quanto minore è l’efficacia nel monetizzare i dati (basso ) e quanto maggiore è la sensibilità alla privacy degli utenti (basso
). Ciò indica che l’efficacia della leva fiscale può essere potenziata da politiche regolatorie complementari, come norme sulla privacy che limitino la capacità estrattiva (più basso
), e da iniziative di trasparenza, che aumentino la consapevolezza degli utenti (riducendo
).
Tuttavia, le piattaforme non sono rimaste a guardare. In risposta alle pressioni regolatorie, giganti del tech come Meta (Facebook, Instagram) e Alphabet (Google, YouTube) hanno introdotto il modello “Freemium”, o “pay or consent”. In questo schema, agli utenti è data la seguente scelta alternativa: sottoscrivere un abbonamento a pagamento per un’esperienza senza tracciamento, oppure accedere gratuitamente in cambio della cessione dei propri dati.
Sembra una scelta democratica. In realtà, come mostriamo nel lavoro, si tratta di una mossa estremamente redditizia per le piattaforme, ma con conseguenze perverse per gli utenti. In questo regime, la piattaforma estrae ancor più dati che nel modello tradizionale di “Pure Advertising”. Non solo: l’architettura basata sul “pay or consent” rende la tassa sui ricavi dalla pubblicità digitale uno strumento meno efficace e potenzialmente controproducente. La soglia fiscale necessaria per indurre le piattaforme a spostarsi verso un modello di business ad abbonamento diventa, infatti, più elevata (e quindi politicamente più difficile da implementare). Inoltre, per aliquote inferiori a questa soglia, un aumento del prelievo fiscale produce un effetto perverso: la piattaforma reagisce aumentando l’intensità di estrazione dei dati per compensare la minore redditività marginale della pubblicità, intensificando così la pressione sulla privacy degli utenti rimasti nel segmento gratuito.
Data la pervasività del modello Freemium, sorge legittimo il dubbio che esso rappresenti un ostacolo difficilmente scalzabile. Tuttavia, un’analisi di benessere sociale condotta utilizzando lo stesso modello offre una prospettiva differente. L’analisi permette di confrontare i profitti della piattaforma (i ricavi dalla pubblicità digitale al netto della tassa) con il surplus degli utenti. I risultati di una calibrazione con parametri realistici sono eloquenti: la piattaforma sceglie un livello di estrazione di dati elevato (
, ottenendo un profitto quasi doppio rispetto a un monopolista tradizionale, mentre il benessere degli utenti risulta compresso e ammonta ad appena un settimo del profitto ottenuto dalla piattaforma.
Un ipotetico pianificatore sociale, massimizzando il benessere collettivo, opterebbe per un livello di estrazione molto più basso (). Questa scelta comporterebbe una contrazione dei ricavi dalla pubblicità digitale e quindi dei profitti del 30%, ma determinerebbe un incremento quasi quintuplo del surplus degli utenti. Il benessere aggregato della società registrerebbe così un aumento netto del 22%, segnalando che l’equilibrio di mercato è marcatamente inefficiente dal punto di vista sociale.
In questa luce, la tassa sui ricavi dalla pubblicità digitale non persegue il mero obiettivo del gettito, ma si configura come uno strumento per correggere un’enorme esternalità negativa. I costi sociali in termini di salute mentale, polarizzazione e degradazione del dibattito pubblico – sempre più documentati dalla ricerca (McLoughlin et al., in Science, 2024; Zhuravskaya et al., in Annual Review of Economics, 2020) – sono reali. Le stime che forniamo nel lavoro sintetizzato in questa nota suggeriscono che un danno sociale di soli 80 dollari per utente all’anno – una cifra tutt’altro che implausibile dati i recenti studi – basterebbe a giustificare economicamente un’imposta così alta da costringere le piattaforme a un cambio di modello.
In conclusione, la strada regolatoria si presenta più tortuosa del previsto, soprattutto da quando le piattaforme hanno introdotto il modello “pay or consent”. Il recente duro confronto tra EU e USA sull’implementazione delle direttive europee relative ai mercati digitali (DSA e DMA) conferma la forza degli interessi in gioco (A.Geese, Europe Cannot Wait to Fight Trump’s Assault on Democracy, TechPolicyPress, 2025) (Ma una soluzione è possibile. I risultati presentati nel nostro lavoro indicano che la risposta deve essere una tassa coraggiosa sui ricavi dalla pubblicità digitale, affiancata da una regolamentazione stringente che limiti l’efficacia del “data squeezing” e da un’opera di educazione efficace che aumenti la consapevolezza degli utenti. Solo un’azione ferma e ambiziosa può spezzare il circolo vizioso dell’attenzione e promuovere un’ecologia dell’informazione online che valorizzi il benessere degli individui.