La crisi dei lavori verdi in Europa: perché una decarbonizzazione lenta è una minaccia per l’occupazione peggiore di un intervento più energico a favore del clima*
Sebbene la transizione verde e quella digitale porteranno inevitabilmente alla perdita di posti di lavoro, il vero pericolo è altrove. La carenza di investimenti nelle tecnologie verdi comporta il rischio che i nuovi posti di lavoro nell’industria a basse emissioni di carbonio vengano creati al di fuori dell’Europa, lasciando il continente indietro nella corsa al dominio delle tecnologie pulite.
La decarbonizzazione dell’economia e riportare le attività umane a rispettare i limiti del pianeta stanno avendo, e continueranno ad avere, un profondo impatto sull’occupazione e sulle competenze. Le politiche necessarie per correggere il nostro attuale modello di produzione e consumo, che sta esaurendo le risorse, influenzano il mondo del lavoro dal punto di vista qualitativo e quantitativo. Sebbene la transizione verso un’economia a zero emissioni di carbonio creerà milioni di posti di lavoro, molti altri scompariranno o saranno trasferiti in altre regioni del mondo. Ciò modificherà la composizione dell’occupazione, con effetti anche sui tassi di sindacalizzazione e sulla copertura della contrattazione collettiva.
Questa ondata di ristrutturazioni senza precedenti si intreccia con il cambiamento tecnologico – digitalizzazione, automazione e ruolo crescente dell’intelligenza artificiale – e, inoltre, si sviluppa in un contesto geopolitico nuovo e conflittuale. Gli effetti saranno diseguali sotto diversi aspetti: conteranno competenze, genere, età, attività economica e regione. La storia dimostra che i cambiamenti e gli shock tendono a generare ulteriori disuguaglianze. Ciò è particolarmente vero per il modello dominante di transizione verde, che si basa sul concetto di crescita verde, è guidato dalla tecnologia e assegna un ruolo chiave alle forze di mercato. Senza affrontare le disuguaglianze che potrebbero emergere dall’imperativo della decarbonizzazione, non potremo scongiurare la minaccia esistenziale del cambiamento climatico: i conflitti sociali bloccheranno o rallenteranno i cambiamenti necessari.
La transizione verso un’economia a zero emissioni di carbonio sta ridefinendo radicalmente i vantaggi comparati. La leadership nei motori a combustione non offre alcun vantaggio per l’era della mobilità elettrica. Allo stesso modo, l’abilità nella produzione di acciaio ad alta intensità di carbonio non è garanzia di occupazione nell’era dell’acciaio verde. Sebbene le preoccupazioni si concentrino spesso sulla potenziale perdita di posti di lavoro a causa della decarbonizzazione dell’industria, la questione più urgente è come il ritardo nella decarbonizzazione possa mettere in pericolo i posti di lavoro in un mondo in cui la competitività nelle tecnologie pulite diventa sempre più decisiva.
l dibattito si è concentrato sui timori di una “rilocalizzazione delle emissioni di carbonio”, ovvero l’idea che standard ambientali e climatici elevati potrebbero spingere a localizzare all’estero le attività ad alta intensità di carbonio. Tuttavia, il rischio reale è che investimenti insufficienti nelle tecnologie verdi portino alla creazione di nuovi posti di lavoro a basse emissioni di carbonio al di fuori dei confini europei. Ecco perché non si può discutere l’influenza della trasformazione verde sulle dinamiche occupazionali indipendentemente dalle tendenze economiche, tecnologiche e geopolitiche.
Il concetto controverso di “lavori verdi”. Il termine “lavori verdi” è entrato nel discorso mainstream e fatto proprio dai sindacati, dalle ONG ambientaliste, dall’Organizzazione Internazionale del Lavoro (OIL) e dai responsabili politici. Il Programma delle Nazioni Unite per l’Ambiente (UNEP 2018), definisce i lavori verdi come “posizioni nell’agricoltura, nella manifattura, nella ricerca e sviluppo, nell’amministrazione e nei servizi volte a preservare o ripristinare in modo sostanziale la qualità dell’ambiente”. “Verde” è diventato sinonimo di processi, prodotti e servizi legati alla sostenibilità e all’ambiente.
Tuttavia, nonostante vari tentativi, ricondurre questa definizione alle classificazioni statistiche consolidate resta un problema. in numerosi studi e approcci statistici si è cercato, con risultati alterni, di identificare prodotti e servizi che soddisfano i criteri di un’economia verde. Un documento di esperti della Commissione Europea si concentra sulle “professioni verdi” e identifica i cambiamenti strutturali del mercato del lavoro legati a quattro processi chiave:
1) Creazione di posti di lavoro: emergono nuovi posti di lavoro per ridurre le pressioni ambientali o aumentare l’efficienza delle risorse (come le professioni nella produzione di energia rinnovabile)
2) Sostituzione di posti di lavoro: cambiamenti nell’attività economica all’interno o tra i settori, da attività ad alta intensità di risorse ad attività più circolari (il settore automobilistico ne è un esempio, poiché i posti di lavoro nei motori a combustione scompaiono mentre emergono posizioni nello sviluppo di software e nella produzione di batterie)
3) Distruzione di posti di lavoro: perdita di posti di lavoro senza sostituzione diretta, tipicamente in settori con significativi effetti negativi sull’ambiente (come la produzione di energia basata sui combustibili fossili)
4) Ridefinizione dei lavori: i lavori esistenti cambiano le loro competenze e i loro profili nell’ambito della transizione verso un’economia più sostenibile (il settore edile ne è un chiaro esempio, poiché la ristrutturazione degli edifici e le tecnologie di costruzione a basse emissioni di carbonio richiedono nuove competenze e nuovi processi di lavoro)
L’Employment Outlook 2024 dell’OCSE distingue tra “occupazioni green” e “occupazioni ad alta intensità di gas serra”. La prima categoria comprende:
a) Occupazioni emergenti dalla transizione verde che prima non esistevano (come gli analisti dello scambio di quote di emissione o i tecnici di manutenzione delle turbine eoliche)
b) Occupazioni con competenze potenziate dalla transizione verde: ruoli esistenti le cui competenze e mansioni stanno cambiando a causa della transizione verde (come gli idraulici ora specializzati nell’installazione di pompe di calore)
c) Occupazioni di cui la transizione verde accresce la domanda che forniscono beni e servizi richiesti dalle attività verdi (come gli operai edili o i chimici)
Il rapporto sottolinea che, sebbene siano quelle che dovrebbero subire le perdite di posti di lavoro più consistenti, le professioni ad alta intensità di gas serra (che rappresentano il 7% dell’occupazione totale) richiedono competenze simili ad altri lavori, comprese le professioni orientate all’ambiente. Ciò suggerisce che le transizioni sono possibili con una riqualificazione mirata. Tuttavia, il rapporto osserva che il passaggio verso le professioni ‘verdi’ emergenti è più difficile per i lavoratori con posizioni poco qualificate, e ciò rende urgente un’azione politica per non lasciare nessuno indietro.
Per quanto riguarda le stime sulla distribuzione dei posti di lavoro, il rapporto rileva che oltre un quarto dei posti di lavoro nell’OCSE sarà fortemente interessato dalla transizione verso zero emissioni nette. Il 20% della forza lavoro è impiegato in occupazioni orientate all’ambiente, di cui:
– il 46% sono occupazioni esistenti, le cui competenze sono state modificate dalla transizione verde (“occupazioni con competenze potenziate dal verde”)
– il 40% sono lavori esistenti che saranno richiesti perché forniscono beni e servizi necessari alle attività verdi (“occupazioni con aumento della domanda verde”)
– solo il 14% può essere correttamente definito come “occupazioni verdi nuove o emergenti”.
Previsioni sulla creazione di posti di lavoro verdi. La maggior parte delle comunicazioni della Commissione europea che annunciano iniziative di politica climatica iniziano con previsioni che descrivono la trasformazione verde come uno scenario vantaggioso per tutti con effetti positivi netti sull’occupazione. Secondo le proiezioni del 2021, una riduzione del 55% delle emissioni di gas serra entro il 2030 rispetto ai livelli del 1990 comporterebbe un aumento netto fino a 884.000 posti di lavoro, equivalente allo 0,45% in più rispetto allo scenario immutato.
Un ulteriore studio di Ernst and Young (2021), che analizza i progetti di investimento nell’ambito del Next Generation EU dedicato all’economia verde, ha rilevato che questi progetti implicano investimenti complessivi di 200 miliardi di euro e potrebbero creare 2,3 milioni di posti di lavoro.
Il Cedefop (2021) ha stimato che il Green Deal europeo creerebbe altri 2,5 milioni di posti di lavoro, con una crescita superiore all’1%, entro il 2030, non solo nei settori che trainano la transizione verde, ma anche nei servizi amministrativi e di supporto, nei servizi legali, contabili e di consulenza, nella programmazione informatica e nei servizi di informazione.
Con l’annuncio del Piano industriale del Green Deal (Commissione europea 2023), la scheda informativa della Commissione ha affermato: “La transizione verde potrebbe creare fino a 1 milione di posti di lavoro aggiuntivi nell’UE entro il 2030. Ad esempio: entro il 2030, l’occupazione nel settore dell’energia solare potrebbe raggiungere 1 milione di posti di lavoro. Nel settore delle batterie, circa 800.000 lavoratori dovranno essere formati, riqualificati o riciclati entro il 2025 per soddisfare la domanda di nuovi lavoratori in questo settore”.
Il principale difetto di tali previsioni è che sono basate sugli obiettivi da raggiungere, nel presupposto che essi (come gli obiettivi climatici per il 2030) saranno raggiunti grazie alla capacità manifatturiera dell’UE. Queste proiezioni non tengono conto delle ricadute delle politiche industriali, commerciali e di investimento e prefigurano gli sviluppi indipendentemente dalle dinamiche globali.
Evidenze frammentarie sul panorama dei lavori verdi. Anche se la maggior parte degli studi prevede un effetto netto positivo moderato ma chiaro a livello economico aggregato, le differenze regionali e settoriali possono essere enormi. Emergono tre principali categorie di settori: quelli che devono affrontare una significativa riduzione nell’attività (come l’energia fossile), quelli che richiedono una profonda trasformazione (come il settore automobilistico) e quelli con il maggior potenziale di creazione di posti di lavoro (i settori dell’economia circolare).
I dati dimostrano che, sebbene siano stati effettivamente creati posti di lavoro, il ritmo a cui vengono creati resta modesto e disomogeneo. Ancora più preoccupante è il fatto che i posti di lavoro nei settori chiave delle tecnologie pulite sono effettivamente diminuiti tra il 2018 e il 2022.
I dati raccolti dal think tank Bruegel (2024) forniscono un quadro più dettagliato, sebbene ancora frammentario. Nel 2022 (ultimi dati disponibili), l’UE-27 contava 347 000 posti di lavoro nel settore dell’energia solare, 273 500 nel settore eolico e 416 200 nel settore delle pompe di calore, per un totale di poco superiore al milione. Questi posti di lavoro sono concentrati in dieci Stati membri, indicati nella figura 1 (rappresentando nell’insieme l’80 % circa del totale dell’UE). La Germania è in testa per quanto riguarda i posti di lavoro nel settore dell’energia solare ed eolica (rispettivamente 87.000 e 86.000), mentre l’Italia domina per l’occupazione nel settore delle pompe di calore (135.000), seguita dalla Francia (80.000).
Figura 1: Numero di lavoratori nei settori dell’energia solare, eolica e delle pompe di calore (2022, migliaia di persone,Full Time Equivalent)
Fonte: Jugé et al. (2024).
Sebbene la Figura 1 offra solo un’istantanea relativa al 2022, è fondamentale notare che Germania, Italia e Danimarca hanno tutte registrato una perdita di posti di lavoro in questi settori tra il 2017 e il 2022. Sulla base dei dati Bruegel (non riportati nella Figura 1), l’occupazione nel settore manifatturiero dell’energia eolica in Germania è crollata da 140.800 unità nel 2017 a 86.600 nel 2022. Nello stesso periodo, in Danimarca si è registrato un calo da 34.200 a 22.400 unità, mentre la Spagna è rimasta stabile a circa 37.000 unità. L’Italia, nonostante sia leader nel settore delle pompe di calore con 85.000 posti di lavoro nel 2022, ha perso 6.000 posti di lavoro prima di quell’anno. In Spagna i posti di lavoro nel settore delle pompe di calore sono diminuiti da 68.000 nel 2018 a 32.000 entro il 2022, mentre il Portogallo è passato da 80.000 nel 2019 a 25.000 nel 2022.
Sebbene le cause di queste perdite siano molteplici, la tendenza indica l’importanza sia dell’attività di investimento che determina i tassi di installazione (il lato della domanda per i prodotti) sia della quota di tale domanda soddisfatta dai produttori europei.
Anche se la disponibilità di dati è limitata, è chiaro che nell’ultimo decennio non si è avuto il boom previsto nei settori chiave dell’energia pulita in Europa. Questa creazione di posti di lavoro lenta e volatile indica che la transizione dell’Europa verso le emissioni nette zero rimane subottimale dal punto di vista dell’occupazione. La figura 2 illustra le sfide che deve affrontare il settore dell’industria pulita dell’UE. La distribuzione contrastante dei posti di lavoro nel settore solare tra l’UE e la Cina rivela una dura realtà: mentre in Cina due terzi dei posti di lavoro nel settore solare riguardano la produzione, in UE il dato corrispondente è solo il 7%, mentre l’84% di essi è concentrato nell’installazione, essenzialmente il montaggio sui tetti europei di pannelli solari importati. Dal crollo della produzione di pannelli solari nell’UE viene il monito di ciò che bisognerebbe evitare in altri segmenti dell’industria pulita.
Figura 2: Distribuzione dell’occupazione per tipo di attività nel settore solare
Fonte: Jugé et al. (2024).
Conclusioni. La trasformazione verde produce tre grandi tipi di cambiamento occupazionale. La produzione di energia da combustibili fossili e le attività correlate saranno gradualmente eliminate e questi posti di lavoro, nella loro forma attuale, scompariranno, anche se rappresentano una piccola percentuale dell’occupazione europea. Le industrie esistenti subiscono una profonda decarbonizzazione, mentre emerge un nuovo scenario manifatturiero basato sulle tecnologie pulite. Questi due segmenti, le industrie ad alta intensità energetica e l’industria pulita, sono profondamente intrecciati e inseparabili.
La difficoltà risiede nell’assenza di una decarbonizzazione globale coordinata e cooperativa. I paesi e le regioni che perseguono percorsi più ambiziosi, come l’UE, devono affrontare costi iniziali più elevati e subiscono perdite temporanee di competitività. Questo fenomeno, denominato “rilocalizzazione delle emissioni di carbonio”, può essere parzialmente affrontato creando condizioni di parità, obiettivo che il meccanismo di adeguamento del carbonio alle frontiere (CBAM) dell’UE mira a raggiungere. Ma questo non è sufficiente.
Sono necessarie politiche industriali molto più articolate per gestire la trasformazione tecnologica di questi settori, che genererà vantaggi competitivi nel lungo termine. Senza tali politiche, i settori interessati premono per un rallentamento del ritmo di transizione (come nel caso della eliminazione graduale dei motori a combustione entro il 2035), per l’alleggerimento degli oneri finanziari (è il caso dei sussidi per l’energia elettrica in Germania) o programmano il trasferimento della produzione all’interno dell’UE per sfruttare le differenze di costo dell’energia (come nel caso di ArcelorMittal).
La domanda è: come può l’Europa sfruttare il potenziale di creazione di posti di lavoro dell’economia verde? Se i nuovi posti di lavoro nelle industrie pulite emergono troppo lentamente e la trasformazione diventa lunga e caotica, i concorrenti internazionali potrebbero conquistare quote di mercato più ampie in segmenti critici dell’industria pulita, con un conseguente costo a lungo termine in termini di posti di lavoro in Europa.
Una lezione emerge chiaramente: non esiste una politica di transizione giusta valida per tutti. L’Europa ha bisogno di politiche di trasformazione mirate e integrate che combinino misure relative al mercato del lavoro, protezione sociale per coprire i rischi di trasformazione, investimenti sicuri e politiche industriali e commerciali sensate. Senza questo approccio globale, il continente rischia di perdere non solo la corsa al clima, ma anche le opportunità di lavoro che dovrebbero accompagnare la transizione verde.
* Questo articolo è stato pubblicato originariamente in inglese su Social Europe il 20 agosto 2025.