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Finanza

Trump, i dazi e la perdita di egemonia

Ad aprile, l’annuncio di Donald Trump su una nuova ondata di dazi ha scosso le relazioni internazionali e l’economia globale. Molti si sono concentrati sugli effetti immediati: impatti sul commercio, reazioni cinesi, tensioni con l’UE. Altri ne hanno letto le motivazioni politiche: strategia elettorale, pressioni interne, rilancio della “guerra dei dazi”. Marco Lossani, su questa rivista, ha interpretato il “Mar-a-Lago Accord” come manifesto della “Pax Trumpiana” e di un tentativo di riscrivere l’ordine economico globale.

Da qui vorrei inquadrare la politica Trumpiana — anche quella del primo mandato — nel contesto più ampio della crisi egemonica degli Stati Uniti: una potenza che, di fronte al progressivo declino della propria capacità di guida globale, ricorre sempre più a strumenti coercitivi e unilaterali. I dazi non sono solo una misura economica, ma il sintomo del logoramento di un’egemonia in affanno. Per capire davvero queste mosse — dazi, tensioni, retorica aggressiva — serve andare oltre la congiuntura. Sono l’esito, non la causa, di un mutamento più profondo: il sistema mondiale sta cambiando, e con esso il ruolo egemonico degli Stati Uniti. I dazi sono l’ultima increspatura di un’onda lunga: un ciclo storico che ha visto l’ascesa, l’apogeo e oggi (forse?) il declino dell’egemonia americana.

 Come ricordava Braudel in `Civiltà materiale, economia e capitalismo’, esistono diversi “tempi” della storia: quello breve degli eventi, quello medio delle crisi cicliche, e quello lungo delle trasformazioni strutturali. È su quest’ultimo che si gioca la crisi dell’egemonia americana.

In quest’ottica, possiamo leggere i dazi non come un’anomalia, ma come un sintomo: il segnale che un ordine globale si sta logorando. L’egemonia, infatti, non si riduce alla supremazia militare o al primato economico. È qualcosa di più complesso: una combinazione storica di forza, centralità produttiva e influenza culturale. Per usare le parole di Gramsci, un potere diventa davvero egemone quando riesce a presentarsi come naturale, facendo apparire spontanee le sue regole, i suoi valori, le sue istituzioni. Questa idea è stata ripresa e ampliata da studiosi come Arrighi e Wallerstein, che hanno mostrato come ogni fase egemonica corrisponda a un ciclo sistemico del capitalismo mondiale. C’è un momento in cui una potenza organizza lo spazio globale intorno a sé: domina il commercio, guida l’innovazione, detta le regole. Ma col tempo, questa leadership si sposta dai settori produttivi alla finanza, dalla merce al denaro, e l’egemonia diventa più distante, più fragile. Il capitalismo, in altre parole, tende a generare egemonia nei momenti in cui una potenza riesce a organizzare lo spazio globale secondo i propri interessi, ma al tempo stesso sembra contenere in sé le contraddizioni che possono eroderla dall’interno.

Estendendo questa lettura alla scala globale, dobbiamo vedere l’egemonia come il risultato della co-evoluzione tra potere militare, centralità economico finanziaria e influenza simbolica — veicolata da media, educazione e narrazioni. Queste dimensioni non operano in isolamento: si rafforzano reciprocamente, dando luogo a una co-evoluzione che rende l’egemonia tanto più pervasiva quanto più appare ‘naturale’: si tratta di un potere capace non solo di modellare il mondo, ma anche il modo in cui esso viene percepito. Tuttavia l’egemonia, per quanto pervasiva, non è mai definitiva. Ed è esattamente ciò che sta accadendo oggi. Gli Stati Uniti, che per decenni hanno rappresentato il cuore della produzione, della finanza e dell’immaginario globale, si trovano in una fase in cui l’equilibrio si sta spezzando. Le disuguaglianze aumentano, le crisi si moltiplicano, la capacità di proporre un ordine condiviso si indebolisce. Il ricorso ai dazi, ai muri e ai “ritorni alla grandezza” non è un segno di forza, ma la reazione di un’egemonia che sente il terreno sfuggirle sotto i piedi.

Parlare di declino non significa annunciare una fine immediata. L’egemonia non crolla di colpo: si sfilaccia. È contestata da potenze emergenti (non solo la Cina), sfidata da nuove narrazioni, corrosa dalle proprie contraddizioni interne. Eppure continua a esercitare un’influenza profonda, soprattutto sul piano culturale: università, media, linguaggio. È proprio questa miscela — centralità e fragilità, potere e disincanto — a definire il momento che stiamo vivendo.

In termini generali e solo per dare un senso a quanto scrivo, le figure 1 e 2 (per quanto parziali) aiutano a visualizzare il lento ma profondo mutamento che sta attraversando l’ordine globale. Il primo mostra la quota di PIL mondiale detenuta da Stati Uniti, Unione Europea e Cina dal 1975 a oggi. L’ascesa della Cina, in parallelo con il graduale declino relativo degli Stati Uniti, rende evidente che l’egemonia americana non poggia più su un predominio economico indiscusso. La stabilità (o stagnazione) dell’Unione Europea conferma la sua posizione intermedia: troppo grande per essere marginale, troppo debole per contendere l’egemonia.

Il secondo grafico, ancora più significativo sul piano sistemico, rappresenta la composizione valutaria delle riserve ufficiali mondiali. Il dollaro perde terreno, mentre lo yuan guadagna spazio: secondo il COFER del Fondo Monetario Internazionale, la quota di riserve in dollari è scesa dal 71% nel 1999 al 58% nel 2023, mentre lo yuan ha superato il 3% dopo l’inclusione nel paniere SDR del FMI nel 2016 (IMF, 2024). L’egemonia americana — fondata sull’intreccio tra potere produttivo e centralità finanziaria — è oggi esposta a pressioni crescenti. Non si tratta di una sostituzione immediata, ma di un lento slittamento, in cui più attori si affacciano su un terreno che fu a lungo monopolizzato da Washington. L’egemonia, per dirla con Gramsci, non viene semplicemente rovesciata: si disfa, mentre il nuovo fatica a nascere.

Figura 1: Quota PIL sul PIL Mondiale. World Data Bank

Figura 2: Quota Valuta nelle Riserve Mondiali (https://data.imf.org/cofer)

I dati mostrano che l’intreccio tra dominio economico, centralità militare e influenza simbolica — condizione necessaria per l’egemonia — si sta progressivamente allentando. Sul piano economico e tecnologico, gli Stati Uniti non sono più il centro assoluto dell’economia globale. Sul piano militare, pur restando la prima potenza in termini di spesa e alleanze, la distanza si riduce: la Cina ha aumentato la propria spesa militare di oltre il 500% tra il 2000 e il 2022 (SIPRI, 2023), e le guerre per procura dimostrano che l’ordine imposto da Washington è sempre più contestato.

Infine, sul piano culturale e simbolico, il soft power americano — fatto di università, cinema, linguaggio globale — continua a esercitare una forza enorme. Ma anche in questo campo emergono nuove egemonie parziali: la Cina con le sue piattaforme digitali e i suoi studenti all’estero (UNESCO, 2023), la Corea del Sud con l’industria culturale, persino l’India nei suoi mercati digitali. L’egemonia americana, insomma, non sta crollando: sta diventando discutibile, revocabile, negoziabile. Ed è proprio questa fragilità nuova a rendere più aggressiva — e più destabilizzante — la risposta del paese egemone. Se il potere egemonico si fonda non solo sulla forza e sulla supremazia economica, ma anche sulla capacità di attrarre e orientare culturalmente, allora il soft power diventa un indicatore cruciale. Come sottolineava Joseph Nye (2004, Soft Power: The Means to Success in World Politics, PublicAffairs), il successo egemonico dipende dalla capacità di far volere agli altri ciò che vogliamo noi”. Le università, la cultura di massa, la scienza e la capacità narrativa sono strumenti potenti di influenza globale. Gli Stati Uniti, grazie alla centralità delle loro istituzioni educative e culturali, hanno costruito un soft power duraturo, che si misura anche nel numero di studenti stranieri attratti dalle loro università. E questi poli sono ora al centro degli attacchi della presidenza Trump, paradossalmente aiutando lo sgretolamento dell’egemonia. E nuovi poli di attrazione stanno emergendo, in particolare in Asia. La competizione egemonica del futuro si giocherà anche — e forse soprattutto — sul terreno dell’immaginario: nella capacità di orientare desideri, valori e aspirazioni collettive, rendendo spontanee visioni del mondo che riflettono interessi particolari. È su questo piano che si esercita la direzione culturale, che prepara il consenso e forma élite capaci di riprodurre l’ordine esistente.

Se l’egemonia non è eterna, e se la sua crisi è un prodotto interno alla logica del capitalismo globale, allora è legittimo chiedersi: cosa viene dopo? In Pensare la Macroeconomia, riprendendo l’impostazione di Arrighi, abbiamo provato a delineare alcune configurazioni possibili del futuro ordine mondiale. Un primo scenario è quello di un’ascesa egemonica della Cina: un paese che, forte della sua centralità nella produzione globale e del suo soft power in espansione, si candida a guidare un nuovo ciclo sistemico. Si tratta di un’egemonia diversa: meno fondata sulla superiorità militare e più sull’investimento strategico in infrastrutture, logistica, cooperazione regionale. Un secondo scenario è quello della restaurazione dell’egemonia statunitense. È la logica che anima le politiche dell’“America First” e la retorica del “tariff man”: riaffermare con forza il primato americano, sfidando apertamente i nuovi competitori. Gli Stati Uniti restano una potenza centrale in termini tecnologici, finanziari e simbolici, ma sembrano oggi più impegnati a difendere posizioni acquisite che a proporre un nuovo ordine condiviso. Il terzo scenario, forse il più realistico nel breve termine ma anche il più instabile, è quello di un mondo multipolare senza un chiaro centro egemonico. Nessuna potenza riesce a imporsi pienamente: si moltiplicano i poli regionali — Cina, India, Russia, Unione Europea, ma anche attori intermedi come Turchia, Iran o Brasile — che competono su scala locale e globale. Le istituzioni multilaterali arrancano, le alleanze diventano fluide, la cooperazione episodica. In questo scenario, l’ordine internazionale si frammenta, e le crisi si intensificano.

Quello a cui stiamo assistendo è un ritorno a quel “caos sistemico” che ha segnato ogni transizione egemonica negli ultimi sei secoli. Oggi c’è una differenza cruciale: questa fase si svolge in un mondo profondamente interdipendente, segnato da crisi climatiche, finanziarie e tecnologiche che nessun attore può affrontare da solo. L’assenza di un corpo egemone capace di proporre una visione condivisa amplifica l’instabilità, e rende più difficile anche solo immaginare un nuovo ordine.

Come scriveva Giovanni Arrighi, “il vecchio muore e il nuovo non può nascere”. Ma mai come oggi il rischio è che, nel morire, il vecchio trascini con sé l’intera architettura globale — o, forse, l’idea stessa di futuro condiviso.