Finanza

Senza futuro. Psicologia della procrastinazione climatica

Immaginate di avere tra le mani un’eredità preziosa, un bene comune da custodire e tramandare. Ma invece di proteggerlo, cominciate a intaccarlo ogni giorno, convinti che “ci penseremo domani”. È quello che stiamo facendo con la nostra casa, la Terra. Il cambiamento climatico non è più una minaccia lontana. È un conto che cresce con gli interessi. Ogni tonnellata di CO₂ emessa oggi resterà nell’atmosfera per decenni, in certi casi per secoli. Ogni grado in più rende gli eventi estremi più frequenti, distruttivi, costosi. E ogni ritardo nell’azione climatica rende più difficile – e più caro – rimettere le cose a posto. Eppure, continuiamo a rimandare. Perché? Il mio recente libro, Scongeliamo i cervelli non i ghiacciai (Solferino Libri 2025), è dedicato a cercare risposte a questo interrogativo e a suggerire cosa fare invece di rimandare.

Svalutare il futuro è umano. Ma quando si traduce in inerzia collettiva di fronte a una minaccia sistemica, diventa esiziale. La forma più evidente con cui scontiamo il futuro si chiama procrastinazione. Rimandiamo a domani ciò che potremmo fare subito, convinti – o illudendoci – che in seguito ci costerà meno fatica. Peccato che, quando quel domani arriva, ci troviamo ancora impantanati nello stesso schema. La procrastinazione ha una spiegazione cognitiva: l’illusione del sé futuro. Immaginiamo che, domani, saremo più disciplinati, più motivati, più responsabili. È il classico “comincio lunedì” che conosciamo bene in ambito personale. Ma lo stesso meccanismo si riflette anche a livello ambientale: continuiamo a rinviare gli investimenti cruciali per la transizione ecologica come se non ci importasse che i cambiamenti climatici potrebbero diventare irreversibili fino a rendere il pianeta Terra invivibile per gli umani e molte altre specie. Ogni anno trascorso senza intervenire è un anno in cui il debito ecologico si accumula. Ogni foresta abbattuta, ogni falda acquifera prosciugata, ogni tonnellata di CO₂ emessa oggi è un prelievo forzoso a danno di chi verrà dopo. Come nella salute individuale, anche per l’ambiente esistono soglie critiche oltre le quali il recupero diventa estremamente oneroso o impossibile.

Uno degli alibi più sofisticati con cui giustifichiamo l’inerzia ha la patina della razionalità economica. È il cosiddetto tasso di sconto sociale. Uno strumento utile per confrontare costi e benefici distribuiti nel tempo, ma che può trasformarsi in una trappola tecnocratica. Per evitare un disastro climatico tra cento anni, quanto dovremmo investire oggi? Dipende. Con un tasso elevato (come quello usato dall’amministrazione Trump, al 7%) bastano pochi milioni. Con un tasso più lungimirante (come quello proposto da Nicholas Stern, 1,4%) servono miliardi. Cambia la percentuale, cambia tutto: le politiche, i bilanci, la traiettoria del nostro futuro. Il problema è che un tasso troppo alto – che riflette l’idea che la vita futura valga meno solo perché più lontana nel tempo – equivale a dire: continuate così.

A fronte di questa svalutazione implicita, torna utile un classico della filosofia politica: l’esperimento mentale di John Rawls. Immaginiamo di dover scegliere le regole fondamentali di una società senza sapere in che posizione ci troveremo. Potremmo nascere ricchi o poveri, sani o malati. E, portando il ragionamento un passo oltre, potremmo nascere oggi o tra duecento anni. Da dietro questo “velo dell’ignoranza”, la scelta razionale sarebbe una distribuzione equa delle risorse nel tempo. Perché potremmo essere proprio noi a dover vivere in un futuro ostile. La giustizia intergenerazionale – agire oggi come se potessimo nascere domani – non è un’utopia. È la logica conseguenza di prendere sul serio il futuro. Ma i cittadini di domani non sono gli unici senza voce. Lo stesso vale per le persone che oggi vivono nei Paesi più poveri. Come ricorda Cass R. Sunstein in Climate Justice (2025), i Paesi ricchi hanno un doppio debito morale: verso le generazioni future e verso le popolazioni più vulnerabili, che subiscono gli effetti peggiori del cambiamento climatico pur avendovi contribuito pochissimo. Siccità prolungate, terre agricole invase dall’acqua salata, insicurezza alimentare: fenomeni già oggi diffusi in molti Paesi del Sud globale, che spingono intere comunità a migrare. Eppure, sono proprio questi Paesi a disporre delle minori risorse per adattarsi. Ecco perché la redistribuzione a favore dei paesi più poveri non è solo moralmente giusta, ma anche strategicamente necessaria.

Il futuro del clima non è solo una questione di giustizia globale e intergenerazionale. È anche ormai un rischio finanziario concreto e misurabile. Una recente ricerca pubblicata su Nature (M. Kotz, A. Levermann, L. Wenz, “The economic commitment of climate change”Nature, vol. 628, 2024), la più completa mai condotta sul tema, ha calcolato che entro il 2050 il cambiamento climatico provocherà una riduzione media del 19% del reddito globale rispetto a uno scenario privo di riscaldamento antropico.

I danni, già in larga parte inevitabili a causa delle emissioni passate, colpiranno quasi tutti i Paesi: anche economie avanzate come Stati Uniti, Germania, Francia e Regno Unito registreranno perdite tra il 7% e il 13% del reddito medio. Ma i più penalizzati saranno, ancora una volta, i Paesi del Sud del mondo. In termini monetari, si parla di una distruzione economica pari a 38 trilioni di dollari all’anno entro la metà del secolo: una cifra sei volte superiore al costo stimato per limitare il riscaldamento globale a +2 °C. Anders Levermann, responsabile del Dipartimento di Scienza della complessità presso il Potsdam Institute for Climate Impact Research, che ha condotto lo studio, ha dichiarato: «Sta a noi decidere: un cambiamento strutturale verso un sistema energetico basato sulle rinnovabili è necessario per la nostra sicurezza e ci farà risparmiare. Continuare sulla strada attuale porterà a conseguenze catastrofiche».

Da qualunque prospettiva la si guardi, non agire costa molto di più che intervenire. Il futuro del pianeta è legato a doppio filo alla nostra capacità di prevenire i danni, non solo di affrontarne le conseguenze. A conferma del fatto che il rischio è sistemico e non più rimandabile, anche esponenti del mondo finanziario lanciano l’allarme. Günther Thallinger, membro del consiglio di Allianz – uno dei maggiori gruppi assicurativi mondiali – nel 2025 ha avvertito che il cambiamento climatico, se lasciato correre, potrebbe rendere l’intero sistema capitalistico insostenibile: il caldo e l’acqua distruggono capitale. Le case allagate perdono valore. Le città surriscaldate diventano inabitabili. Intere classi di attivi stanno degradando in tempo reale. Temperature troppo elevate ed eventi estremi sempre più frequenti stanno già rendendo intere aree «non assicurabili». E senza assicurazione, avverte Thallinger, non esistono né mutui né investimenti: l’intero impianto del credito e della finanza si blocca. Le compagnie assicurative, che vivono di gestione del rischio, sono tra le prime a percepire gli effetti concreti del riscaldamento globale e hanno stimato in 2000 miliardi di dollari i danni da eventi climatici estremi solo nel decennio 2013–2023, 400 miliardi di dollari nel 2024. In questo scenario, la sostenibilità non sarà più solo una questione di equità verso le generazioni future o verso il Sud del mondo, ma di sopravvivenza economica. Salvare il clima è l’unico modo per salvare le condizioni in cui i mercati dei capitali possono continuare a esistere.

La procrastinazione climatica non nasce però solo dalla sottovalutazione del futuro. Origina anche dalla difficoltà di convivere con un presente scomodo. Quando la realtà ci dice una cosa, e la nostra identità, i nostri desideri o il nostro stile di vita ne dicono un’altra, qualcosa dentro di noi si incrina. È in quel momento che interviene una strategia di sopravvivenza psicologica: la dissonanza cognitiva. Leon Festinger, lo psicologo che ha coniato il termine, l’ha osservata per la prima volta studiando un culto apocalittico convinto che il mondo sarebbe finito il 21 dicembre 1954. Quando la profezia si rivelò falsa, i seguaci non abbandonarono la setta. Anzi: si convinsero che era stato proprio il loro fervore a salvare il pianeta. La dissonanza – cioè il contrasto tra la previsione catastrofica e il fatto che nulla fosse accaduto – non venne risolta abbandonando la credenza, ma costruendo una nuova narrativa, autoassolutoria e rassicurante. Lo stesso accade oggi con il cambiamento climatico. Sappiamo, razionalmente, che il problema è grave. Ma se le nostre abitudini – di consumo, di trasporto, di alimentazione – lo aggravano, entra in gioco il bisogno di coerenza con noi stessi. E così iniziamo a raccontarcela. Le giustificazioni che troviamo sono infinite: “Tanto da solo non faccio la differenza”. “Prima dovrebbero muoversi i grandi inquinatori”. “Ormai è troppo tardi”. “La tecnologia risolverà tutto”. “Certo che il clima è importante, ma il problema vero è la disoccupazione, la sicurezza, la crescita…” Tutte ‘razionalizzazioni’ che servono a ridurre la tensione tra ciò che sappiamo e ciò che facciamo. A mantenere l’immagine di noi stessi come persone razionali, moralmente integre, mentre continuiamo a vivere come se nulla stesse accadendo.

Un altro modo per ridurre la dissonanza è delegare la responsabilità. Aggrapparci all’idea che spetti ad altri agire: ai governi, alle multinazionali, alla Cina, all’Europa, o direttamente al futuro. È una forma raffinata di autoassoluzione. Più il problema è globale, più ci sembra lecito il nostro disimpegno individuale. È la dinamica dell’effetto spettatore: se tutti sono coinvolti, nessuno si sente davvero responsabile. Eppure, proprio perché il cambiamento climatico è un’emergenza globale, la cooperazione diventa indispensabile. La cosiddetta “tragedia dei beni comuni”, descritta da Garrett Hardin nel 1968, ci ammonisce: se ciascuno pensa solo a sé, l’intero sistema collassa. Ma non è un destino inevitabile. Non è un dilemma senza soluzioni. A mostrarci la via d’uscita è stata Elinor Ostrom, prima donna a ricevere il Nobel per l’economia, che ha smontato l’idea secondo cui l’unica alternativa alla catastrofe ecologica sarebbe una rigida autorità centrale o, al contrario, il laissez-faire. Ostrom ha documentato decine di casi – dalle riserve forestali in Nepal ai sistemi di irrigazione in Spagna – in cui comunità locali sono riuscite a gestire risorse comuni in modo sostenibile con regole condivise, monitoraggio reciproco, fiducia, sanzioni proporzionate e partecipazione attiva. In altre parole: non serve un Leviatano, ma nemmeno possiamo affidarci al mercato da solo. Serve costruire contesti in cui i cittadini si sentano parte di un’impresa collettiva. Dove la responsabilità non è scaricata su altri, ma condivisa. Dove le scelte individuali hanno senso perché inserite in una cornice di reciprocità. Dove non ci si limita a chiedersi “che cosa posso fare io?”, ma anche “che cosa possiamo fare insieme?”.

Per cooperare, però, serve una bussola comune. E quella bussola è la fiducia negli esperti e nella scienza. Difendere la scienza non significa idealizzare chi la pratica. Significa riconoscere che, pur con tutti i suoi limiti, il metodo scientifico resta il nostro miglior alleato per orientarci nell’incertezza. Non perché offra verità assolute, ma perché è costruito per correggersi, per affinare le risposte attraverso il confronto, il dubbio metodico, la verifica dei fatti. A rendere possibile tutto questo sono le istituzioni preposte allo scopo: università, centri di ricerca, accademie, enti pubblici di valutazione, riviste scientifiche e procedure di peer review. Non sono perfette, certo. Possono essere lente, conservatrici, talvolta burocratiche. Ma esistono proprio per impedire che la conoscenza dipenda dai capricci del mercato e dagli umori degli autocrati del momento. È grazie a queste istituzioni, progettate per essere autonome, indipendenti, fondate su regole condivise, che la scienza opera e merita fiducia.

Quando c’è disaccordo all’interno della comunità scientifica è inevitabile esplorare progetti di ricerca in competizione e sottoporre a verifica ipotesi alternative. Ma quando il consenso è ampio, robusto e ben sedimentato – come nel caso del contributo antropico al cambiamento climatico – dare spazio pubblico al dubbio o a teorie alternative non è apertura intellettuale o un esercizio democratico: è disinformazione.

Le tesi negazioniste climatiche non sono nuove. Sono già state analizzate, discusse, smentite e archiviate dalla comunità scientifica. Chi le rilancia oggi non partecipa al dibattito scientifico. In questi casi, il dubbio non è lo slancio sincero del ricercatore, ma lo strumento tattico di lobbisti travestiti da scettici, di ciarlatani con un’agenda politica nascosta. La comunità scientifica, sulla questione climatica, ha già fischiato la fine della partita. Ma qualcuno vuole farci credere che si stia ancora giocando.