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Finanza

Riarmo o Lavoro? Un’Analisi Critica degli Imperativi Europei. Seconda parte: vincoli economici e di struttura

L’illusione dell’autonomia europea nel settore della difesa. Il “ReArm Europe Plan” e “Readiness 2030” sono iniziative intrecciate della Commissione europea volte ad aumentare in modo significativo la spesa per la difesa dell’UE, con la prospettiva di mobilitare oltre 800 miliardi di euro entro il 2030 (D’Aprile F. et al., “Europe’s military programmes: strategies, costs and trade-offs”, LEM Papers Series 2025/25, Sant’Anna School of Advanced Studies, 2025). I punti principali comprendono una maggiore flessibilità fiscale nazionale nell’ambito del Patto di stabilità e crescita, il lancio di un nuovo strumento di prestito da 150 miliardi di euro chiamato Security Action for Europe (SAFE) per investimenti comuni nella difesa, un maggiore sostegno da parte della Banca europea per gli investimenti e iniziative per attrarre capitale privato. Il piano punta a colmare i divari di capacità in settori come la difesa missilistica e la cybersicurezza, oltre a migliorare la mobilità militare e la preparazione generale alle crisi. In generale, il cosiddetto “Piano ReArm Europe/Prontezza 2030”, che implicherebbe un aumento della spesa militare di ulteriori 50-60 miliardi di euro l’anno, soleva almeno due ordini di problemi: di finanziamento ed efficacia.

Supponendo che tutte le risorse finanziarie siano mobilizzate, rimane il dubbio che l’aumento della spesa militare europea si traduca in un reale rafforzamento della base industriale e tecnologica continentale. L’architettura del settore aerospazio-difesa a livello globale è geograficamente concentrata ed è caratterizzata da importanti barriere all’entrata, quali costi fissi elevatissimi, economie di scala, know-how privato e regolamentazioni stringenti. Gli Stati Uniti dominano il settore, seguiti a distanza dall’Europa, con la Cina in rapida ascesa ma ancora marginale in termini di mercato globale (Tabella 1).

Tra il 2018-2023, nonostante gli appelli europei relativa all’autonomia strategica, il 78% degli appalti per la difesa nell’UE è stato assegnato a operatori extra-europei, e di questi il 63% proveniva direttamente dagli Stati Uniti (García‐Serrador A. et al., “Buy Guns or Buy Roses?: EU Defence Spending Fiscal Multipliers”, Suerf Policy Brief, n. 1209, 2025). Questa dinamica ha effetti non solo industriali ma anche occupazionali. Secondo le stime di GreenPeace (Bonaiuti et al., “L’Europa delle armi. La spesa militare ei suoi effetti economici in Germania, Italia e Spagna”, in Rapporto di Greenpeace, Economia a mano armata 2024), in Germania, una spesa di un miliardo di euro per l’acquisto di armamenti mette in moto un aumento della produzione interna di 1,23 miliardi di euro. In Italia, l’aumento risultante è di soli 741 milioni di euro, poiché una parte maggiore della spesa è destinata alle importazioni. In Spagna, l’incremento della produzione interna ammonterebbe a 1,28 miliardi. L’effetto sull’occupazione equivale a 6000 posti di lavoro aggiuntivi (a tempo pieno) in Germania, 3000 in Italia e 6500 in Spagna. In termini occupazionali, in Germania un miliardo di euro potrebbe creare 11 mila nuovi posti di lavoro nel settore ambientale, quasi 18 mila nell’istruzione o 15 mila nei servizi sanitari. In Italia, le cifre corrispondenti variano da 10 mila posti di lavoro nei servizi ambientali a quasi 14 mila nell’istruzione; mentre in Spagna, l’effetto occupazionale oscillerebbe tra 12 mila nuovi posti nel settore ambientale e 16 mila nell’istruzione. In sostanza l’impatto sull’occupazione è compreso tra due e quattro volte quello atteso da un aumento degli acquisti di armamenti.

La frammentazione del mercato europeo, la mancanza di standard comuni e il cronico sotto-investimento in R&S militare, rendono il continente strutturalmente debole. Il moltiplicatore keynesiano di questa spesa, in un simile contesto, è destinato a essere basso o addirittura negativo nel medio termine, poiché la domanda interna stimola principalmente l’occupazione e il valore aggiunto altrove.

Vincoli tecnologici, competitivi e sociali della transizione economica europea. Il Rapporto Draghi sulla Competitività Europea (2024) delinea un quadro impietoso e preoccupante della competitività economica europea. L’Europa appare in ritardo cronico in quasi tutti i domini tecnologici e industriali che ridisegneranno il panorama geopolitico ed economico del XXI secolo: l’intelligenza artificiale e la digitalizzazione, le tecnologie per la transizione energetica, la farmaceutica di precisione, lo spazio, le materie prime critiche e, non ultimo, la difesa. Il rapporto stima che per colmare questo divario e garantire la propria sicurezza economica e tecnologica, l’UE abbia bisogno di mobilitare investimenti aggiuntivi dell’ordine di 750-800 miliardi di euro annuo, corrispondente a circa il 4,5% del suo PIL. Sebbene il rapporto Draghi sia citato in quasi tutti i documenti europei, l’impatto economico e politico è modesto, tanto più che le pressioni geopolitiche e gli impegni assunti in sede NATO spingono verso un massiccio piano di riarmo continentale, allontanandosi dal contenuto del piano Draghi. L’Europa si trova così di fronte a un bivio esistenziale, aggravato da due ordini di problemi: il finanziamento e l’efficacia di queste scelte.

Di fronte all’impossibilità politica di creare un debito comune su larga scala e ai vincoli stringenti dei bilanci nazionali, la risposta di Bruxelles sembra orientarsi verso una radicale finanziarizzazione della politica industriale. Le proposte emerse dal rapporto Letta,  puntano a trasformare l’incompiuta Unione dei Mercati dei Capitali in una “Unione del Risparmio e degli Investimenti” (Savings and Investments Union – SIU). L’obiettivo è ambizioso e al contempo rischioso: convogliare la sterminata massa di risparmio privato delle famiglie europee – stimata in circa 11,5 trilioni di euro, per lo più dormiente su conti correnti a basso rendimento – verso investimenti in progetti strategici europei. Il meccanismo prevede la creazione di prodotti di risparmio paneuropei a lungo termine, con iscrizione automatica e incentivi fiscali, gestiti da fondi di investimento e da fondi pensione, riducendo così il ruolo tradizionale del credito bancario.

L’effetto (in)desiderato potrebbe essere quello di una militarizzazione del mondo del lavoro: l’industria della difesa non genera semplicemente posti di lavoro, piuttosto un particolare tipo di lavoro e di cultura organizzativa: tende a riprodurre valori come l’obbedienza gerarchica, la disciplina, il segreto e un senso di appartenenza tipico degli apparati securitari. Questi valori possono facilmente permeare il tessuto sociale più ampio e penetrare in altri settori del mondo del lavoro, erodendo gli spazi del dissenso, il conflitto sindacale e l’autonomia professionale.

Inoltre, la spesa militare produce anche una crescente polarizzazione del mercato del lavoro. I posti creati nel settore militare e in quello para-militare (sicurezza privata, intelligence) sono tipicamente più stabili, meglio retribuiti e protetti rispetto a quelli offerti nei servizi civili o nell’economia della conoscenza, sempre più segnati dalla precarietà. Questa divergenza alimenta fratture sociali profonde: da un lato, una “aristocrazia operaia” blindata dalla sua utilità strategica; dall’altra, una massa di lavoratori esposti alla volatilità dei mercati globali. Un ulteriore rischio spesso trascurato è il cosiddetto “lock-in tecnologico”: grandi investimenti militari odierni orientano ricerca e innovazione verso l’ambito bellico, sottraendo energie e talenti a settori civili cruciali come l’intelligenza artificiale, la sanità digitale, le tecnologie per la transizione verde. Una volta che l’infrastruttura industriale e accademica è stata incanalata nella filiera della difesa, diventa molto difficile invertirne la rotta. L’Europa rischia così di compromettere la sua capacità di recuperare terreno proprio nei campi che dovrebbero garantirne la competitività futura. Come ha acutamente osservato l’economista Daniela Gabor (“EU’s shift to a US savings model risks dismantling its social contract”, Financial Times 2 luglio 2025), questo modello importa de facto il modello economico americano, con un sistema pensionistico e di investimento dove il rischio e la rendita sono individualizzati. Negli Stati Uniti il sistema pensionistico si regge in larga parte su strumenti individuali come i piani 401(k) o i fondi privati, legati all’andamento dei mercati finanziari. Il rischio di rendimento – e quindi di povertà in vecchiaia – ricade sul singolo lavoratore. In Europa, invece, il modello dominante è stato storicamente quello pubblico e collettivo: i contributi dei lavoratori attivi finanziano le pensioni correnti, in un patto di solidarietà intergenerazionale che riduce le disuguaglianze e socializza i rischi. Importare il modello americano significa dunque spostare il peso dalla comunità al singolo, con conseguenze potenzialmente esplosive per la coesione sociale europea. Ciò rappresenta una frattura epocale col modello sociale europeo, storicamente basato sulla solidarietà intergenerazionale e sulla gestione pubblica o collettiva dei rischi principali (disoccupazione, malattia, vecchiaia).

Il pericolo è che, nel tentativo di finanziare la propria sovranità esterna (la difesa), l’Europa smantelli pezzo per pezzo la propria sovranità interna, cioè quel patto sociale che ne ha costituito la forza e l’attrattiva per decenni.

Conclusione: il ritorno della scelta civile. L’analisi condotta ridimensiona la tesi secondo cui il riarmo possa risolvere i problemi economici europei. Non solo la spesa militare europea registra un moltiplicatore debole, ma si traduce in un finanziamento indiretto all’industria statunitense, accelerando le disuguaglianze sociali, ma rischia di implementare un modello di finanziarizzazione che mina le basi del welfare europeo.

Il dilemma “burro o cannoni” si ripropone dunque all’orizzonte dell’UE non come un tecnicismo da manuale, piuttosto come una scelta di civiltà. Da un lato, un percorso che privilegia la difesa tradizionale, che accetta la subalternità tecnologica e strategica agli Stati Uniti, che scarica sui risparmi dei cittadini europei il costo della sovranità e che rischia di snaturare il DNA sociale europeo; dall’altro la scelta coraggiosa di raddoppiare gli investimenti in quelle transizioni verde e digitale che sono non solo più coerenti con la tradizione europea, ma che offrono moltiplicatori economici più elevati, creano occupazione di qualità diffusa, riducono le dipendenze strategiche (dalle energie fossili, dai microchip) e, non da ultimo, affrontano le minacce esistenziali reali del XXI secolo, che sono di natura climatica e sociale.