Finanza

Rafforzare il Servizio Sanitario Nazionale, anche per rivitalizzare la democrazia

Le quotidiane esperienze di difficoltà nell’accesso al SSN sono note. Liste di attesa per molte prestazioni; carenze profonde nella medicina territoriale, nonostante i proclami al tempo del Covid e i finanziamenti del PNRR per le Case della Comunità; disattenzione, quando si accede al SSN, alla qualità delle relazioni nonché alla minimizzazione degli oneri per i pazienti che già sopportano quello di essere malati.

In questo contesto, anziché impegnarsi nel rafforzamento del SSN, va sempre più diffondendosi la tesi dell’insostenibilità economica del servizio pubblico e, di conseguenza, della necessità di un’integrazione fra il SSN e il cosiddetto secondo pilastro, vale a dire, agevolazioni fiscali a fondi, mutue e assicurazioni. L’idea soggiacente è che già oggi non potremmo più permetterci una sanità pubblica quale quella contemplata dalla legge 833, quasi cinquanta anni fa, e non lo potremmo ancor più nel futuro, fra vincoli di rientro dal debito, nuove sfide extra-sanitarie e andamento demografico.

Certo, la bozza di legge di bilancio per il 2026 destina 2,4 miliardi di euro in più al Fondo sanitario (in aggiunta ai 4 miliardi già stanziati dalla legge di bilancio per il 2025). La dotazione resta, tuttavia, insufficiente. Come sottolinea l’Osservatorio sui conti pubblici dell’Università Cattolica, una parte importante dell’aumento va a stipendi sui cui si pagano imposte che ritornano al bilancio pubblico. Tenendone conto, l’incidenza netta sui conti pubblici si riduce da 2,4 a 2,1 miliardi un importo non molto lontano dal costo della nuova rottamazione delle cartelle, la quinta dal 2016: 1,5 miliardi. L’aumento, poi, è largamente inferiore alla spesa del SSN prevista dallo stesso DPEF. La spesa ammonta a 6,5% del PIL, mentre il finanziamento è pari al 6,16%: il che spingerà le Regioni a tagli o a debito poi da ripianare. Per il 2028, si prevede addirittura una riduzione del finanziamento al 5,93%. Al contempo, anche l’attuale 6,5% resta molto lontano da quanto nel 2024 già spendevano per la sanità pubblica paesi a noi vicini come Francia, Germania e Gran Bretagna (in media oltre 3 punti in più). Siamo dunque ben lontani da un’inversione di marcia. E, comunque, il Piano strutturale di Bilancio di medio termine (2025-29) prevede “lo sviluppo e il riordino degli strumenti per la sanità integrativa”. Già oggi, peraltro, i contratti di lavoro che prevedono la sanità integrativa sono in costante aumento e con essi il peso della sanità privata. L’ultimo esempio riguarda il contratto del personale scolastico.

Il mix di definanziamento del pubblico e agevolazioni al privato è, però, micidiale. Si lascia peggiorare il servizio pubblico, favorendo la sua sostanziale marginalizzazione e il ricorso a una sanità privata, non soltanto inevitabilmente disuguale, perché solo chi ha i soldi o il contratto giusto può accedervi, ma anche più costosa. Se così, è l’integrazione con il secondo pilastro che non ci possiamo permettere. Serve allora delineare un’alternativa possibile, capace di indicare come rafforzare il SSN, che è ciò che chiedono anche le oltre 150 organizzazioni civiche di recente riunitesi a sostegno del SSN.

Rosy Bindi, con il suo recente volume, Una sanità uguale per tutti. Perché la salute è un diritto (Solferino, 2025), ci offre un contributo prezioso. Con linguaggio chiaro e accessibile, Bindi smonta passo a passo la tesi dell’insostenibilità e indica diverse vie concrete per rilanciare la sanità pubblica.

Sul fronte dell’insostenibilità, l’articolo 32 della Costituzione è inequivocabile: “la Repubblica tutela la salute come diritto fondamentale dell’individuo e interesse della collettività”. Ne discende il dovere di garantire a tutti un’uguale risposta di fronte ai bisogni, pur nel riconoscimento delle differenze individuali. L’integrazione con il privato apre invece la strada a una sanità censitaria, dove la qualità e la tempestività delle cure dipendono dalla capacità di spesa. Il che non significa, ovviamente, che bisogna dare tutto a tutti. Significa, però, che, una volta definite, le risorse spendibili vanno destinate al finanziamento di servizi accessibili a tutti.

Inoltre, il sistema misto comporta una spesa complessiva più elevata — per via del profitto da remunerare e della tendenza a privilegiare prestazioni più redditizie — e rischia di lasciare scoperti i cittadini proprio nei momenti di maggiore bisogno. In un mercato del lavoro sempre più fluido, perdere l’occupazione può, infatti, significare perdere anche la copertura assicurativa. Molte assicurazioni poi selezionano i pazienti, non assicurando le patologie da cui si potrebbe essere già stati afflitti. Le assicurazioni, infatti, sono un meccanismo di protezione dal rischio, non da eventi certi. Il privato poi si concentra sulla produzione di singole prestazioni, non sulla presa in carico integrata dei pazienti. E, ancora, come ricorda Bindi, “il medico, anche il più dedicato alla propria professione, è sempre più forte del suo paziente, e ancor più lo sono le grandi holding e le case farmaceutiche”. Serve, dunque, il contraltare della sanità pubblica.

In breve, come sostiene Bindi, “la salute, … può essere garantita solo se concepita come bene comune, non come affare privato”. Il modello assicurativo alimenta l’illusione che si possa “uscirne da soli”, ma — seguendo le parole di don Milani — “sortirne da soli è l’avarizia”. Il benessere collettivo non si difende chiudendosi nel fortino dei privilegi. In opposizione con quanti affermano “fuori la politica dalla sanità”, serve una politica “come governo della cosa pubblica, come tutela dell’interesse generale”

Non è facile intervenire in un contesto nel quale il personale è sfiduciato, il lavoro nel privato appare spesso assai più lucrativo per i medici e i cambiamenti da fare sono tanti, anche sul piano della governance. L’individualismo, l’attenzione a sé si sono in generale rafforzati, anche nella popolazione, a discapito della solidarietà. I social network diffondono l’illusione della conoscenza fai da te, nella sottovalutazione delle evidenze scientifiche.

Ma le vie per rilanciare il SSN ci sono. Bindi ne indica diverse, in gran parte già presenti nella legge 229 del 1999 — la cosiddetta riforma Bindi — che il suo libro vuole rivalutare, sottraendola alle obiezioni che l’hanno accompagnata, anche a sinistra. Porto l’attenzione su cinque azioni, rimandando al libro per le indicazioni in materia di territorializzazione della sanità, cura della non auto-sufficienza e integrazione sociosanitaria.

1. Aumentare il finanziamento pubblico. I vincoli delle risorse esistono, ma è compito della politica definire le priorità e stabilire i livelli essenziali da garantire a tutti. Non serve reperire subito tutti i fondi. Serve, però, avviare un percorso di rafforzamento progressivo, puntando su progressività fiscale, contrasto alle iniquità orizzontali esistenti (a parità di capacità contributiva varia l’onere tributario), recupero dell’evasione e ricalibratura della spesa pubblica. Le risorse, del resto, si trovano per le armi: si potrebbero trovare anche per la salute.

2. Riformare la governance. Va contrastata l’estensione alla sanità dell’autonomia differenziata, assicurando sì autonomia ai livelli territoriali decentralizzati, ma rafforzando al contempo la capacità di programmazione del centro in materia di aggiornamento dei LEA, riduzione delle disuguaglianze (di salute e di accesso ai servizi), orientamento della ricerca e valorizzazione della gestione pubblica diretta. Vanno altresì ricercate modalità di scelta collettiva in grado di coniugare partecipazione, competenza, attenzione alle migliori evidenze empiriche disponibili. Particolarmente interessante, nel libro, è la ricostruzione del caso Di Bella, dove questi elementi sono stati, appunto, centrali. Il Prof. Di Bella aveva proposto una terapia oncologica che difendeva sulla base delle sue personali esperienze. Il Ministero rispose con una sperimentazione scientifica che, dati alla mano, dimostrò l’inefficacia del trattamento.

A latere, una considerazione sull’aziendalizzazione. “La salute non ha prezzo, ma i servizi sì”, scrive Bindi. Gli sprechi vanno pertanto evitati perché chi ne paga il prezzo sono i più fragili. L’economicità, tuttavia, va messa al servizio della produzione di salute, non del pareggio di bilancio. Proprio per sottolineare questa declinazione, Bindi avrebbe voluto che la sua riforma ripristinasse le Unità sanitarie locali, al posto delle Aziende sanitarie locali introdotte da De Lorenzo e dal governo Amato. Non è stato possibile, ma le finalità di salute restano dirimenti anche in un contesto di aziendalizzazione. Contrariamente a quanto avvenuto nella pratica, l’aziendalizzazione va altresì regolata, contro le degenerazioni della governance monocratica.

3. Valorizzare il personale. Serve incrementare il personale dipendente pubblico, medico e infermieristico, valorizzare tutti i profili contrattuali (prevedendo anche profili di carriera per ciascuno di essi) e investire nel governo clinico e in processi formativi coerenti con le finalità del servizio pubblico (prevenzione, appropriatezza, integrazione sociosanitaria).

Bindi affronta anche il tema controverso dell’attività intramoenia. Ricorda che il doppio regime era già previsto nella legge 833, ma che la legge 229 mirava a limitarlo, introducendo dal 2000 l’obbligo di esclusività per i nuovi assunti e subordinando la libera professione alla prevalenza del lavoro pubblico e al superamento delle liste d’attesa. Il vincolo era che i tempi per la libera professione non fossero inferiori a quelli dell’attività istituzionale. Laddove tale vincolo è stato realizzato, le liste di attesa sono diminuite.

4. Regolare l’accreditamento. Innanzitutto, attenzione a cosa intendere per accreditamento. L’accreditamento rappresenta una via per estendere l’offerta di prestazioni, entro un quadro di accordi contrattuali che definiscono tipologia e volume delle prestazioni basati sulla programmazione. Al pubblico spettano, inoltre, i compiti sia di monitoraggio e di controllo delle strutture accreditate sia di manutenzione delle tariffe, al fine di prevenire possibili effetti distorsivi, come la selezione di prestazioni più remunerative, le dismissioni precoci o l’induzione di prestazioni inappropriate. L’accreditamento, dunque, è diverso dal convenzionamento, che mette alla pari strutture pubbliche e private, come avviene nel cosiddetto modello lombardo. Oggi, poi, aggiunge Bindi, l’accreditamento richiede una cautela particolare, dovuta alla già elevata presenza di strutture private nel SSN (un quinto del bilancio del SSN è destinato al privato accreditato), all’indebolimento delle strutture pubbliche e alla finanziarizzazione della sanità privata.

5. Rivedere le agevolazioni fiscali ai fondi sanitari. Le agevolazioni andrebbero limitate ai fondi totalmente integrativi, mentre oggi basta che il 20% delle prestazioni sia aggiuntivo per ottenere il beneficio fiscale. I fondi integrativi coprono prestazioni non comprese nei livelli essenziali, mentre quelli sostitutivi includono anche prestazioni indirizzate ai livelli essenziali di prestazione.

Come per tutte le proposte, le valutazioni possono divergere rispetto sia al merito intrinseco dei diversi punti sia al peso da attribuire ai compromessi da fare fra le varie esigenze. Qualsiasi siano le valutazioni sui singoli aspetti, una conclusione è incontrovertibile. Bindi ci offre un insieme solido e ricco di ragioni e di proposte specifiche per rafforzare il SSN. Così facendo, ci indica anche una strada di rivitalizzazione della democrazia. La sanità è un bene comune e un SSN che si ispira ai principi qui brevemente delineati è anche un esperimento di rivitalizzazione della democrazia.