Può Rawls ispirare un programma per la sinistra?
Lo scorso marzo, gli Editori Laterza hanno pubblicato un libro ambizioso: la bella traduzione in italiano di Free and equal di Daniel Chandler (Liberi ed Uguali. Manifesto per una società giusta). La tesi espressa da Chandler è che il liberalismo egualitario sviluppato da Rawls e affinato da una generazione successiva di filosofi possa offrire ai progressisti la bussola, ideale e politica, per contrastare il neoliberalismo. Diversi commenti nella stampa, in Italia e all’estero, condividono questa posizione.
Sono del tutto d’accordo con Chandler nell’affermare l’importanza del contributo di Rawls. Tanti anni, fa all’inizio degli anni 80, sotto l’impulso di Claudio Martelli, con un gruppo di persone di diversa provenienza politica fondammo Politeia, un’associazione che aveva esattamente lo scopo di diffondere nel nostro paese l’etica pubblica del liberalismo ugualitario e al centro dell’iniziativa c’era il pensiero di Rawls insieme a quello di Sen. Fra le persone coinvolte vi era il filosofo Salvatore Veca, più vicino al Pci, proprio a segnalare l’intento di portare Rawls nella più ampia cultura della sinistra, allora ancora caratterizzata da una forte componente marxista.
Dirimente, tuttavia, è il piano del contributo rawlsiano. Chandler lo estende all’offerta sia di una visione generale di giustizia sia di specifiche indicazioni di politiche pubbliche. Personalmente, lo limiterei alla visione generale. Potrebbe sembrare riduttivo, ma così non è.
L’idea di fondo di Rawls, sviluppata a partire da A Theory of Justice, nel 1971, è che “la giustizia è la prima virtù delle istituzioni sociali” e l’economia fa parte delle istituzioni sociali. La giustizia, a sua volta, deve essere intesa come equità e l’equità come una forma di imparzialità. Rawls sceglie una qualificazione di imparzialità che coniuga l’adozione di un velo di ignoranza rispetto a chi siamo (quali abilità, posizione sociale, concezione di buona vita abbiamo e quali caratteristiche ha la società in cui viviamo, al fine di non favorire una generazione rispetto ad un’altra) con il valore fondamentale dell’uguaglianza morale di considerazione e rispetto. Dobbiamo giustificare agli altri le nostre posizioni in materia di giustizia, come se potessimo essere chiunque altro e riconoscendo, al contempo, l’altro come moralmente uguale. Da qui, la qualificazione anche “kantiana” dell’imparzialità di Rawls. Altre qualificazioni di imparzialità includono la lotteria o l’adozione di un assunto di mera equiprobabilità (in tal caso, si mantiene il velo di ignoranza, ma il valore della comune uguaglianza morale viene meno, sostituito dalla massimizzazione dell’utilità attesa).
Richiedere processi di scelta basati sulla visione rawlsiana di equità sarebbe un cambiamento non di poco conto rispetto alle modalità tipiche in cui oggi si prendono le decisioni, dove sono predominanti le voci dei più forti e la ricerca della mera aggregazione di interessi soggettivi, dell’”io” della prima persona singolare, nella totale ignoranza del “noi” che potremmo essere. L’equità toglierebbe, invece, ai diversi attori le basi stesse, informative e di potere, per contrattare a proprio personale vantaggio.
Chandler fa un gran lavoro nell’analizzare questa visione in termini semplici, ma al contempo completi e precisi, prendendo sul serio le tante obiezioni che in questi anni le sono state mosse. Penso, innanzitutto, all’obiezione in termini di astrattezza secondo cui l’assenza di informazione imposta dal velo di ignoranza renderebbe impossibile la derivazione di qualsiasi principio di giustizia. Proprio perché per scegliere dobbiamo sapere qualcosa, il velo di ignoranza rischia di essere addirittura una mistificazione, permettendoci di occultare in modo surrettizio pregiudizi che andrebbero esplicitati e/o voci dai margini che andrebbero ascoltate, trascurando le differenze fra le persone, in primis, fra donne e uomini.
L’obiezione ha certamente molto da dire. Richiede, tuttavia, non di abbandonare il velo di ignoranza, ma di ragionare sulle modalità della sua applicazione. Anziché uscire dal mondo e, da un punto di vista “archimedeo” decidere sul mondo, come avviene in Teoria della Giustizia, possiamo applicarlo partendo dalle posizioni che occupiamo nel mondo, come lo stesso Rawls propone nel successivo Liberalismo politico. Richiede altresì non di abbandonare il riferimento all’individuo chiunque, ma di rifuggire da una concezione indifferenziata, guardando alle tante persone che vi stanno dietro e che noi stessi potremmo essere. In questa prospettiva, sapremmo, sì, chi siamo, ma non daremmo per buone le nostre pretese, siano esse a stampo positivo o negativo (ad esempio, affinché lo Stato ci eroghi una data cura o un data pensione o un dato reddito minimo o, di converso, non interferisca con le nostre attività), ricercandone la soddisfazione in un processo di mera aggregazione di interessi. Le valuteremmo, invece, in modo imparziale, prendendone in considerazione le implicazioni sui tanti altri soggetti, moralmente uguali a noi, che potremmo essere. L’assonanza con la democrazia deliberativa è evidente. Certo, non sempre è possibile. Alcuni si potrebbero rifiutare. Ma, allora, come sostiene Rawls, le scelte rifletterebbero un modus vivendi che prescinde dalla giustizia.
Penso altresì alle obiezioni in termini di poca radicalità. Già obbligare a far proprio il punto di vista del complesso delle persone che potremmo essere è assai radicale. Il ricco dovrebbe ragionare come se potesse anche essere povero. Non può limitarsi a avanzare nell’arena pubblica le sue preferenze, quali potrebbero essere quelle a favore della mera massimizzazione del valore per gli azionisti. Dovrebbe offrirne una giustificazione che possa essere accettabile anche per chi sta peggio.
Ma non è tutto. Consideriamo i due principi di giustizia che secondo Rawls sarebbero scelti. Il primo principio stabilisce la priorità delle libertà fondamentali (politiche, di parola, coscienza…). Tali libertà non includono, tuttavia, la libertà di detenere privatamente mezzi di produzione. L’unica libertà economica fondamentale è la libertà di detenere risorse personali. E, ancora, il secondo principio di giustizia afferma che le risorse dovrebbero essere distribuite in misura perfettamente uguale a meno che le disuguaglianze rendano massimo il benessere di chi sta peggio secondo il principio del maximin. Personalmente reputo problematico questo secondo principio. Da un lato, pone una richiesta molto esigente: la perfetta uguaglianza delle risorse, nel riconoscimento del carattere totalmente casuale dei nostri contributi agli altri, derivando essi interamente dal caso delle lotterie naturali e sociali. Dall’altro, ne riconosce i disincentivi alla crescita e introduce allora una deroga che potrebbe comportare disuguaglianze anche molto elevate. Il che mi porta a giustificare una via intermedia che riconosca un qualche ruolo allo sforzo individuale e alle disuguaglianze connesse agli scambi di mercato. Ma non è qui lo spazio per discuterne. Stiamo discutendo di radicalità o non radicalità e la richiesta di una perfetta uguaglianza delle risorse è indiscutibilmente radicale. Mette in discussione, fra l’altro, qualsiasi giustificazione meritocratica. Lo stesso maximin è diverso dal trickle down: non basta che le disuguaglianze sgocciolino e diano un qualche beneficio a coloro che stanno peggio. Bisogna che il beneficio per questi ultimi sia il massimo possibile.
Penso ancora alle obiezioni in termini di individualismo. Certo, la posizione di Rawls è individualistica e le libertà individuali (con le qualificazioni sopra date) sono il valore prioritario. Si tratta, tuttavia, di un individualismo con una forte impronta sociale. Ciò non solo è evidente nella qualificazione dell’equità come imparzialità a partire da una comune uguaglianza morale fondamentale. È evidente anche nell’inclusione delle basi sociali del rispetto di sé all’interno delle risorse da distribuire in misura uguale (dunque, oltre alle dotazioni economiche, conta il riconoscimento). E, in contrapposizione alla concezione privatistica della società, vorrei aggiungere il peso dato alla natura sociale delle persone e alla visione della società come unione sociale, in una prospettiva à la von Humboldt. A quest’ultimo riguardo, come scrive Rawls, in A Theory of Justice (p. 523, trad. mia), “possiamo dire, seguendo von Humboldt, che è attraverso una unione sociale fondata sui bisogni e sulle potenzialità dei suoi membri che ciascuna persona può partecipare nella somma totale del complesso delle abilità di ciascun altro”.
Infine, penso alle obiezioni secondo cui considerare la società come schema di cooperazione, come fa Rawls, renderebbe chi non è in grado di cooperare persona di seconda classe. Al riguardo, basti ricordare la diversità dei modelli di reciprocità che vanno ben oltre il do ut des dello scambio sincronico di mercato e, di nuovo, i valori dell’uguaglianza morale e del rispetto di sé che prescindono dalla capacità di cooperare. Per Rawls, chi è in grado di cooperare deve cooperare, ma chi non è in grado vale come chiunque altro.
Ciò detto, e qui mi distanzio da Chandler, penso che Rawls sia lungi dall’offrire specifiche indicazioni di politiche pubbliche. Già l’esclusione dalle libertà fondamentali della libertà di detenere mezzi di produzione implica la sostanziale ammissibilità sia del capitalismo sia del socialismo: una scelta non di poco conto! Innumerevoli sono altresì le possibili specificazioni delle disuguaglianze ammesse dal secondo principio. Peraltro, come sostiene Cohen (If you’re an egalitarian how come you’re so rich?), accettare la logica degli incentivi significa non seguire spontaneamente la giustizia: al contrario, si deve essere premiati con più risorse economiche. E, ancora, Rawls, è assai critico nei confronti del Welfare state, che considera una macchina assistenzialistica, confidando nelle tutele offerte dalla distribuzione del reddito e della ricchezza (e perorando la realizzazione di una democrazia proprietaria, in cui tutti accedono a quote di capitale). Il che significa trascurare le importanti funzioni svolte dallo Stato sociale in materia di assicurazione dai rischi e di garanzia di una infrastruttura di servizi sociali fondamentali per la stessa uguaglianza morale. Ultimo punto, sebbene la lista di esempi potrebbe continuare: certamente Rawls non è per un reddito di base incondizionato, una politica spesso presente nei programmi politici della sinistra. Un tale reddito metterebbe in discussione, per lui, il carattere cooperativo della società (J. Rawls, “The Priority of the Right and Ideas of the Good”, Philosophy and Public Affairs, 1988, 4).
Rawls, dunque, non toglie alla sinistra la responsabilità dell’elaborazione di un programma di governo e su questo occorre tornare e torneremo. Le offre, tuttavia, un grande aiuto per muovere in questa direzione. Le offre una visione di giustizia che, obbligando a giustificare le diverse proposte sulla base del noi che potremmo essere, sarebbe un enorme passo avanti rispetto al gioco degli interessi oggi dominante.