Finanza

Potere di persuasione e ricchezza

Non costituisce di certo una novità l’affermazione secondo cui il progresso tecnologico è una delle forze principali da cui dipende l’andamento della disuguaglianza economica. Non soltanto e non tanto per la disuguaglianza che potrebbe generare tra lavoratori skilled e unskilled, a cui diversi economisti – soprattutto qualche anno fa – hanno attribuito grande importanza, ma anche e soprattutto perché il progresso tecnologico favorisce l’affermarsi di mercati con limitata concorrenza e molto potere e, anche per questa via, altera i rapporti tra lavoratori, azionisti e manager, principalmente a beneficio di questi ultimi. In breve, il progresso tecnologico determina caratteristiche e tendenze della disuguaglianza economica che, negli ultimi decenni, hanno favorito la concentrazione dei redditi al top.

Tutto ciò non è una novità. Più nuova sembra essere invece la tesi che il percorso del progresso tecnico dipende dalla disuguaglianza e risponde, in particolare, alle preferenze – o, se si vuole, alle richieste – dei più ricchi. Questa è la tesi sostenuta da Daron Acemoglu e Simon Johnson (vincitori del Premio Nobel per l’Economia nel 2024, insieme a James A. Robinson) nel volume Power and Progress (2° ed., 2024, Basic Books). In realtà anche questa tesi si era già affacciata nella letteratura economica. Si può, in particolare, ricordare quanto scrisse più di 50 anni fa S. Marglin (“What Do Bosses Do? The Origins and Functions of Hierarchy in Capitalist Production”, The Review of Radical Political Economics, 1974) a proposito del ‘potere’ dei capitalisti di favorire l’emergere di tecniche di produzione maggiormente estrattive di valore nei confronti dei lavoratori. Ma la tesi di Acemoglu e Johnson è, in un certo senso, più generale perché non riguarda soltanto l’estrazione di valore dal lavoro ed è certamente diversa e innovativa nell’indicazione del canale attraverso cui le preferenze dei ricchi si imporrebbero, influenzando gli appropriati processi, a tutta la società: la persuasione. Il messaggio, non privo di preoccupanti sfumature, è che i ricchi dispongono di un potere ‘anomalo’, quello della persuasione per realizzare i propri obiettivi o, per usare l’espressione di Acemoglu e Johnson per affermare la propria visione. Essi, infatti, scrivono che il modo in cui usiamo la conoscenza e la scienza dipende dalla visione, cioè dal “modo in cui gli umani comprendono come possono tradurre la conoscenza in tecniche e metodi finalizzati a risolvere specifici problemi. La visione dà forma alle nostre scelte perché specifica quali siano le nostre aspirazioni, quali mezzi abbiamo per perseguirle, quali opzioni alternative consideriamo e quali ignoriamo e come percepiamo i costi e i benefici delle nostre azioni” (p. 24).

La visione che del progresso tecnologico hanno i leader è prevalentemente quella dei ricchi. In alcuni casi leadership e ricchezza coincidono e – stando a quanto argomenta Guido Alfani in As Gods among Men, 2023, capitoli 8-10tale coincidenza si è verificata in molte epoche storiche, anche se i meccanismi che l’hanno determinata non sono necessariamente gli stessi. Oggi, sia nelle dittature che nelle democrazie liberali, sembra prevalere una visione focalizzata sull’automazione dei processi produttivi (per ridurre, o addirittura annullare, i vincoli che il lavoro può porre al capitale) sulla sorveglianza (dei lavoratori, dei luoghi, di individui e gruppi considerati a priori “pericolosi”) e sulla raccolta dei mega-dati. Quindi sia la IT che, a maggior ragione, la AI vengono sviluppate soprattutto in queste direzioni, tutte capaci – secondo Acemoglu e Johnson – di ampliare il potere e la ricchezza di quella ristretta élite che è riuscita a far prevalere la propria visione.

La possibilità che una certa visione del progresso tecnologico si affermi sarebbe dunque direttamente legata alla capacità di persuadere. Certo, l’idea alla base della visione deve essere sufficientemente forte, ma la capacità di persuadere a cui i due autori fanno riferimento dipende in modo cruciale dalla credibilità dei persuasori, e non da altro – di cui pure diremo. La credibilità, a sua volta, dipende dallo status sociale che, non da oggi è legato in modo inscindibile alla ricchezza. Se la ricchezza è considerata segno inequivocabile di capacità, competenze saggezza (e magari anche merito), essa fornisce uno status e un prestigio particolari a chi l’ha accumulata (ma, spesso, anche a chi, senza merito alcuno, l’ha ereditata). Da questo status deriva autorevolezza e potere in generale e potere di persuasione in particolare: “se sei ricco o politicamente potente, puoi disporre di status sociale, che ti rende più persuasivo” (Acemoglu e Johnson, cit., p. 87). Ai ricchi può capitare anche questo e non soltanto di essere i destinatari, come spesso si sostiene con fastidio, dei sentimenti di invidia di chi ricco non è.

È opportuno, allargando il campo, riflettere sulle modalità attraverso le quali la ricchezza conferisce il potere di piegare ai propri interessi e alle proprie visioni le decisioni o i comportamenti altrui, a seconda dei casi, e il ruolo specifico che può avere la persuasione. Il problema non è quindi quello – più volte trattato sul Menabò – del potere (derivante anche dall’innovazione tecnologica) come causa originaria della ricchezza, che peraltro è stato di recente esplorato dagli stessi Acemoglu e Johnson e, soprattutto, da Mordecai Kurz (The Market Power of Technology: Understanding the Second Gilded Age,2023). Il problema è il nesso opposto che, associato al primo, può condurre a una spirale – virtuosa per i ricchi ma potenzialmente pericolosa per la società – in cui la ricchezza alimenta il potere e questo alimenta la ricchezza.

La ricchezza, di norma, conferisce potere perché permette di “acquistare” altrui comportamenti o decisioni, in diversi contesti, assicurando quindi un beneficio materiale a chi può “vendere” quei comportamenti. L’acquisto di comportamenti può concretizzarsi nell’esborso di denaro speso per lobbying, ecc. E in questo caso non sempre è appropriato parlare di persuasione, essendo possibili scambi espliciti che alterano le convenienze individuali in piena consapevolezza, come è nel caso della corruzione. Più propriamente di persuasione si può parlare con riferimento all’attività dei grandi mezzi di comunicazione – l’altro ieri i giornali, ieri le televisioni, oggi i social media – che sono in genere posseduti dai ricchi e che capaci opinion makers utilizzano per acquisire consenso alle visioni dei loro “principali”, facendole anche diventare senso comune accettato dall’opinione pubblica.

Sostanzialmente si tratta del fenomeno che George Akerlof e Robert Shiller (altri due Premi Nobel per l’Economia) hanno definito “phishing for phools”, cui hanno dedicato un libro, pubblicato nel 2015 (Phishing for Phools. The Economics of Manipulation and Deception, Princeton University Press). Nel libero mercato non c’è soltanto libertà (almeno formale) di scegliere, c’è anche, libertà di utilizzare il potere di persuasione per manipolare le scelte e i comportamenti altrui, fornendo informazioni false o – sfruttando le accertate debolezze della razionalità individuale – condizionando le stesse preferenze delle persone. Con buona pace della vecchia idea che l’etica ha bisogno del mercato.

La pubblicità sembra, naturalmente, il luogo in cui il phishing può annidarsi più facilmente, essendo per sua natura diretta a convincere i consumatori di desiderare proprio quel prodotto o fare proprio quel viaggio, etc. La politica è un altro luogo ideale per il phishing. Con un’accorta e ben finanziata campagna è possibile persuadere molti elettori a votare per un candidato o un partito che, questa è la promessa, se andrà al governo, ridurrà le tasse a tutti. Perché tassare – si dice – significa mettere le mani nelle tasche dei cittadini e perché aliquote elevate sui redditi alti disincentivano il duro lavoro e l’intrapresa, se non sono addirittura espropriative. Poco importa se il reale proposito dei politici-phisher è ridurre le tasse soltanto per i ricchi, rinviando il taglio delle tasse ai redditi medio-bassi al se e al quando le condizioni del bilancio pubblico lo consentiranno.

Altro esempio – chiaramente collegato al precedente – è la capacità di persuadere gli elettori più poveri a votare per i politici (specie se multimiliardari) che evocano con toni vivaci il “trickle-down”, secondo il quale anche se a crescere, grazie alla politica economica promessa, è solo il reddito dei ricchi (e quindi il loro), alla fine una parte di tale maggior reddito sgocciolerà fino a raggiungere i più poveri. In breve, nascondere il male dietro la promessa di un bene. Proprio come accadeva alle origini della ‘propaganda’ cui contribuì decisamente – nei primi anni del secolo scorso – Edward Bernays, nipote di Sigmund Freud, autore di un libro dal titolo, appunto, Propaganda che tra l’altro suggeriva di usare la promessa di due automobili in futuro per sopportare la guerra.

L’intervento persuasivo può quindi incidere sulle preferenze (convincersi che quello che ci viene ‘consigliato’ ci piace) o sulle informazioni (le conseguenze di date scelte o decisioni ci appaiono più convenienti) ma l’esito non è molto diverso.

Il lobbying e il controllo proprietario dei media sono, però, soltanto un modo indiretto con cui i ricchi possono esercitare potere, condizionando e modificando le scelte, le decisioni e le stesse opinioni altrui, rendendole ‘amichevoli’ verso i loro obiettivi. Ed è un modo costoso. Lo status sociale che la ricchezza conferisce, invece, permette ai ricchi di persuadere delle loro visioni anche senza pagare somme di denaro (più o meno lecitamente) e perfino senza che chi viene persuaso abbia consapevolezza di scegliere o fare ciò che altri gli anno occultamente ‘imposto’. In alcuni casi, il processo può portare perfino a nutrire opinioni e a compiere scelte che sono contrarie ai propri “veri” interessi. E questo si verifica nelle scelte elettorali come in molti altri campi.

Quanto detto sin qui suggerisce la seguente idea: nell’epoca della comunicazione senza limiti, si arricchiscono le forme che può prendere il potere associato alla ricchezza e le nuove forme si rivelano particolarmente vantaggiose per i ricchi. Infatti, non costa persuadere e si possono “comprare” simultaneamente e gratis i comportamenti di molti soggetti. Inoltre “il potere di persuasione genera delle dinamiche che si auto-rinforzano: più la gente ti ascolta più status guadagni e maggiore è il successo politico ed economico che ottieni” (Acemoglu e Johnson, cit., p. 96). Questo consente di orientare le scelte politico-sociali in generale (cioè non solo il progresso tecnologico), nelle direzioni più convenienti ai ricchi e potenti, cioè quelle che più rafforzano il loro potere (di mercato e in generale) e meglio consentono di concentrare ricchezza (e status) nelle loro mani e, in tal modo, di accrescere il loro potere di persuasione comprando sempre più comportamenti. Così lievita anche il potere politico dei ricchi (più o meno innovatori) e la democrazia si indebolisce, cedendo terreno all’oligarchia. Un’esperienza che, come ricorda ancora Guido Alfani, non è nuova nella storia dell’umanità.

Si crea, in altri termini, una spirale ricchezza-potere che si alimenta non soltanto della persuasione collegata allo status ma anche di quella che scaturisce dalle altre forme ‘costose’ e che, in alcuni casi, possono essere le uniche efficaci. Il che permette di delimitare l’importanza della persuasione da status cui Acemoglu e Robinson riservano tutta la loro attenzione.

Per disinnescare questa spirale – esclusa la soluzione di esiliare o bandire i superricchi – la via maestra, suggerita già nel tardo XIV secolo dal filosofo francese Nicole Oresme, sarebbe quella di contenere la disuguaglianza e, soprattutto, le ricchezze estreme che oggi la caratterizzano. Ma, considerando il ruolo del potere di persuasione derivante dallo status, oggi potrebbe servire anche un atteggiamento di maggiore diffidenza e di minore ‘esaltazione’ dei ricchi e delle loro capacità. Pensando a questo tornano alla mente parole lette tanto tempo fa e che furono pronunciate niente meno che da Theodore Roosevelt, 26° presidente (repubblicano) degli Stati Uniti (1901-1909), Le parole, su cui meditare ancora oggi, sono queste:

Sono semplicemente incapace di assumere un atteggiamento di rispetto nei confronti degli uomini molto ricchi che una moltitudine enorme di persone, invece, esibisce. Sono lieto di mostrare cortesia a Pierpont Morgan, Andrew Carnegie o James Hill, ma quanto a considerarli, ad esempio, come considero Peary, l’esploratore artico, o Rhodes, lo storico, non potrei costringermi a farlo nemmeno se lo volessi, e questa è una cosa che non voglio.