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Perché l’Unione europea va in blocco: il voto all’unanimità da dispositivo comunitario a leva per i governi antisistema

Il voto all’unanimità nel Consiglio Ue, che prevede l’accordo di tutti gli Stati membri, rappresenta un fattore particolarmente critico dell’attuale architettura istituzionale dell’Unione europea, poiché è spesso motivo di grave paralisi nel processo decisionale che attiene ai c.d. “settori strategici”, ovvero le politiche che gli Stati continuano ad attrarre nella sfera delle sovranità nazionali tra i quali, in primis, la politica estera e di sicurezza comune (art. 31, TUE), la cittadinanza (art. 20, TFUE), le politiche fiscali (art. 110, TFUE), le risorse proprie (art. 310, TFUE), la giustizia e gli affari interni (art. 67 ss., TFUE).

Il tema della necessità dell’ampliamento del voto a maggioranza qualificata è già da alcuni anni al centro del dibattito delle istituzioni europee (tra gli altri, Commissione Affari costituzionali del Parlamento europeo (AFCO) “Relazione sulle proposte del Parlamento europeo sulle modifiche dei Trattati”, 7.11.2023), ma di recente si è intensificato a causa delle crisi internazionali e delle ipotesi di allargamento dell’Unione (AFCO, “Relazione sulle conseguenze istituzionali dei negoziati relativi all’allargamento dell’Ue”, 2.10.2025). In particolare, la guerra di aggressione subita dall’Ucraina e il genocidio a Gaza hanno evidenziato i gravi costi politici e strategici del blocco delle decisioni in seno al Consiglio Ue, sul quale il Parlamento europeo si era già attivato nella passata legislatura (AFCO, “Working Document on overcoming the deadlock of unanimity voting”, 28.04.2021; AFCO “Working Document on the Implementation of the “passerelle” clauses in the EU Treaties”, 8.11.2022).

Alle origini del sistema sovranazionale europeo, il voto all’unanimità è istituito per garantire gli interessi nazionali nel Consiglio Ue a fronte della Commissione – organo promotore e difensore degli interessi dell’Unione – anche per dare voce, secondo il metodo comunitario, ai governi meno influenti in una Comunità europea ristretta a pochi Stati membri operanti nel quadro di una “sovranazionalità decisionale” che si andava definendo (J.H.H. Weiler, Il sistema comunitario europeo, Bologna, 1985, 49). Il grande allargamento del 2024 (Trattato di adesione di Atene, 1 maggio 2004 che ha visto l’adesione di dieci nuovi Paesi membri: Repubblica Ceca, Cipro, Estonia, Ungheria, Lettonia, Lituania, Malta, Polonia, Slovacchia, Slovenia) e quelli successivi del 2007 (Romani e Bulgaria) e del 2013 (Croazia) hanno condotto ad un Unione ben più larga, ma viene da chiedersi se le ragioni del blocco decisionale in cui spesso incorre il Consiglio, siano date dalle inevitabili difficoltà negoziali da imputare al numero elevato dei suoi componenti (F. Bestagno, Le dinamiche della “democrazia consiliare” dell’Unione europea tra consensus e astensioni, Eurojus, 1/2024), o non piuttosto dalla volontà di affermazione degli indirizzi di quei governi che, dall’interno dell’Unione, difendendo il voto all’unanimità, compromettono profondamente la natura del metodo comunitario, deformandone lo scopo attraverso la sovrapposizione alla sovranità statale, di orientamenti sovranisti che nulla hanno a che vedere con quel “metodo”. In altre parole, si produce il paradosso che proprio i governi che maggiormente avversano l’Unione e l’integrazione europea, ne utilizzano per i loro scopi antisistema il dispositivo più fondante.

Ripercorrendo le tappe della revisione dei Trattati, si vede come già a partire dalla prima modifica del Trattato di Roma con l’Atto Unico europeo (AUE, 1986), è ridotto il numero di settori strategici per i quali era richiesta l’unanimità, al fine prevalente di consentire il potenziamento del mercato unico entro il 1993. L’AUE ha quindi introdotto un numero maggiore di casi in cui il Consiglio prende decisioni a maggioranza qualificata anziché all’unanimità, semplificando e accelerando così di molto il processo decisionale: per gli atti normativi concernenti l’instaurazione del mercato unico non è più necessario il voto all’unanimità, salvo che per le disposizioni fiscali, per quelle relative alla libera circolazione delle persone e ai diritti dei lavoratori. La votazione a maggioranza qualificata diviene la norma per le tariffe doganali, la libera circolazione di capitali, la libera circolazione dei servizi, il trasporto aereo e marittimo.

Con il Trattato di Maastricht (1992) sono inserite a livello dell’Unione politiche quali la sicurezza, la difesa, la politica estera, l’asilo politico, la fiscalità, la moneta, che tuttavia vengono definite come “strategiche” – o “sensibili” – quindi sostanzialmente attratte dalle istituzioni di natura intergovernativa – Consiglio Ue e Consiglio europeo – che prevalentemente adottano la regola del voto all’unanimità. In seguito, il Trattato di Lisbona (2009) introduce nuovi settori strategici sui quali è possibile decidere con voto a maggioranza qualificata in seno al Consiglio, pur mantenendo un numero ristretto di settori strategici subordinati al voto all’unanimità – imposizione fiscale, sicurezza sociale e protezione sociale, adesioni di nuovi stati membri all’Ue, politica estera e di sicurezza comune (PESC), politica di sicurezza e di difesa comune (PSDC), cooperazione di polizia – e favorendo anche la possibilità di passare dal voto all’unanimità al voto a maggioranza con le c.d. “clausole passerella” (art. 48.7, TUE, art. 31.3, TFUE, art. 321.2, TFUE).

Al momento, come si è visto, le proposte di modifica del voto all’unanimità proliferano, di recente anche il Rapporto Draghi del settembre 2024 segnala la necessità di snellire e rendere più celeri le procedure decisionali (“Il futuro della competitività europea”, parte A, 72).

Considerato questo scenario, le riflessioni che ne emergono rimandano innanzitutto ai fattori che hanno originato e consentono che perduri il ricorso all’unanimità, e che sono costitutivi del sistema del governo dell’Unione. Il primo tra questi è carico di una connotazione negativa, si tratta infatti della risalente sfiducia dei governi degli Stati membri nei confronti delle istituzioni europee, da ricollegare all’affermazione, nel primi decenni di vita della Comunità europea, di quella che J.H.H. Weiler ha definito “sovranazionalità normativa” (J.H.H. Weiler, Il sistema comunitario europeo, Bologna, 1985), data dall’attivismo della Commissione e della Corte di Giustizia a fronte della “incompletezza” dei Trattato istitutivo (sul c.d. “approccio contrattuale” applicato all’Ue, cfr. G. Majone, Deficit democratico, istituzioni non-maggioritarie ed il paradosso dell’Unione europea, Stato e mercato,2003); tale sfiducia può ipotizzarsi come la premessa del ricorso al voto all’unanimità, inteso come strumento per garantire la forza e la presenza degli Stati nel processo decisionale.

Su questo si innesta un altro fattore che, almeno originariamente, aveva un carattere e un intento positivo: più specificamente, uno dei principi organizzatori dell’Unione è dato dalla rappresentanza degli interessi – innanzitutto nei due grandi blocchi degli interessi dell’Unione e degli interessi degli Stati – che nel sistema europeo scardina completamente il principio della separazione dei poteri ed è, di volta in volta, alla base della scelta del tipo di processo decisionale a seconda della natura dell’interesse in gioco; i settori “sensibili” o “strategici”, sono per l’appunto quelli su cui si delibera all’unanimità nel caso in cui si tratti di politiche pubbliche significative per gli interessi nazionali e per la sovranità degli Stati. Tuttavia, un sistema basato sulla rappresentanza degli interessi – e non sulla separazione dei poteri – dovrebbe avere come presupposto quel balance of powers in base al quale nessuna istituzione dovrebbe poter prevalere sulle altre e tutte dovrebbero essere portatrici dei diversi interessi politici, economici e sociali nell’esercizio dei loro poteri (sarebbe questo il fondamento del c.d. “governo misto”, configuratosi ai primordi della Stato moderno, N. Matteucci, Lo Stato moderno, Bologna, 1997).

Ciò che invece avviene nell’Unione europea è che gli organi di matrice intergovernativa tendono a prevalere, e soprattutto il Consiglio Ue è divenuto la sede per affermare posizioni e garantire interessi che non hanno soltanto a che fare con “settori sensibili” – ciò sarebbe nella natura dell’organo e del procedimento – bensì con le posizioni di alcuni Stati membri connotate da un intento sostanzialmente antitetico ai fondamenti dell’ordinamento giuridico e dell’architettura istituzionale dell’Unione, e al processo di integrazione nel suo insieme, basti pensare alle difficoltà opposte al voto unanime sul bilancio pluriennale (art. 321.2, TFUE)e alle decisioni riguardanti gli Stati membri non rispettosi dei principi fondanti dello Stato di diritto (art. 6, TUE).

Per concludere, tra disposizioni vigenti e difficoltà di introdurre modifiche, l’impressione è di essere ad uno stallo nel quale è difficile, se non impossibile, giungere ad una soluzione. Se si volesse richiamare la dicotomia unanimità-autorità (G. Corso, Unanimità o autorità: è un vero dilemma?, Rivista di filosofia del diritto, 2022) si sortirebbe soltanto l’abbaglio di una nostalgia del potere politico, in realtà da sempre deficitario nell’Europa unita. Anche ricorrere alla teoria del c.d. “governo misto” basato sul balance of powers,potrebbe contribuire a comprendere alcune dinamiche, ma non sembra idoneo ad offrire soluzioni, come avviene anche se ci si confronta con l’anomalia della forma di governo dell’Unione del tutto estranea alla separazione dei poteri.

Tutte queste prospettive – deficit di potere politico, equilibrio istituzionale mancato, rappresentanza di blocchi di interessi – sono poco consolanti, e soprattutto poco risolutive, ma ad esse si aggiunge un altro elemento: il voto all’unanimità acquista oggi un valore diverso da quello delle origini, da strumento “comunitario”, inclusivo e di garanzia degli interessi degli Stati, è divenuto, al contrario, lo strumento per accentuare una tensione tra Stati e Ue, che consente di bloccare le decisioni di quest’ultima, con un sostanziale intento “antisistemico”. L’affermazione dei sovranismi crea una strettoia, o forse, più propriamente, un vicolo cieco: a voler mantenere l’unanimità si rischia frequentemente il blocco decisionale, ma al tempo stesso si fa il gioco dei sovranisti. Inoltre, il passaggio alla decisione a maggioranza qualificata per materie ulteriori rispetto a quelle attuali, appare rischioso se si considerano le possibili maggioranze generate da governi nazionalisti – chi vincerà in Francia le prossime elezioni? quanto durerà l’attuale governo in Italia? verrà rieletto? e cosa avverrà Germania? – che spianerebbero ulteriormente la strada all’ingresso degli indirizzi anti-europeisti in seno al Consiglio Ue e forse in maggioranza (D. Sassoon, La Stampa, 26.10.25). Pertanto, al momento appare più conveniente una soluzione orientata al “meno peggio”, ovvero mantenere il voto all’unanimità, sia pure paralizzante e altalenante negli esiti, al fine di tenere le forze politiche sovraniste imbrigliate in una comunitarizzazione forzata, anche ricorrendo alla cooperazione rafforzata, o alla cooperazione rafforzata permanente (artt. 326-334 TFUE, S. Fabbrini, Il Sole24ore, 2.11. 2025)

Ciò detto,si tratterebbe di rimedi non definitivi, la revisione delle modalità di voto nel Consiglio, e quindi l’eventuale snellimento delle procedure decisionali di competenza dei governi, non risolverebbero il problema di fondo dato dalla mancanza di consenso sulle politiche europee da parte dei cittadini, che è l’unico vero pilastro indispensabile alla loro efficacia. In altre parole occorre non solo (ri)costituire un equilibrio tra le istituzioni europee così da sottrarle alle forze antisistema generate dai governi di alcuni Stati membri, ma anche, e ulteriormente, provare a sottrarre l’Unione europea ai governi per consegnarla ai cittadini.