Finanza

Per un’altra economia e un’altra politica

A partire dalla Rivoluzione industriale, la potenza tecnologica dell’umanità è cresciuta fino a poter distruggere la vita sul Pianeta (e varcare i confini dell’umano). Allo stesso tempo, ha aperto orizzonti di benessere ed emancipazione prima impensabili, per tutti gli abitanti della Terra: dalla cura delle malattie a quella degli ecosistemi, dalla prosperità materiale al godimento e alla condivisione della cultura. Entrambe queste prospettive si stanno già realizzando. E non da oggi. Per la verità, è almeno dalla Prima guerra mondiale che lo sviluppo tecnologico appare come un giano bifronte e, di conseguenza, si pone il problema di come orientarlo al benessere e ai diritti, prevenendo nuove e più terribili forme di oppressione. Ed è un problema che diventa sempre più attuale, va da sé, a mano a mano che aumenta la potenza tecnologica; è il dilemma gigantesco, affascinante e drammatico della modernità; il tema fondamentale del nostro tempo.

Buona parte della soluzione passa per l’economia (che accompagna e avvolge lo sviluppo tecnologico: lo promuove, se ne nutre, lo guida). E per i rapporti che questa stabilisce con la politica (ma quale politica?) e con l’etica (di che tipo?). Storicamente, l’economia nasce per aiutare la politica, a sua volta indirizzata dall’etica: dovrebbe contribuire a fornire i mezzi, gli strumenti, che la politica organizza per raggiungere i fini posti dall’etica. Oggi però l’economia da ancella si è fatta padrona, almeno nel mondo che ama definirsi libero: come scienza invade gli altri campi del sapere, come weltanschauung pervade ogni dimensione della vita, come potere è lei a dettare legge alla politica, determinando scelte che vanno a favore dei più e a scapito dei molti (cioè a favore delle forze economiche dominanti); l’etica dei diritti e la politica democratica si rivelano impotenti e perdono legittimità. In almeno alcuni dei regimi autocratici (la Cina, su tutti) la situazione è diversa: la politica governa l’economia; ma non si tratta di una politica democratica, né rivolta all’etica dei diritti. La sfida di indirizzare economia e sviluppo tecnologico al benessere e all’emancipazione rischia così di essere perduta, stretta nella tenaglia di due Leviatani: quello occidentale, dominato dal potere economico, tecno-finanziario; e quello d’Oriente, dominato dal potere politico, autocratico. In Occidente, per giunta, sta prendendo il sopravvento una nuova politica, quella dell’estrema destra nazionalista, che vira anch’essa verso l’autocrazia: propone di tornare a controllare l’economia attraverso le leve dell’intervento pubblico (dal protezionismo al complesso-militare industriale), riducendo gli spazi di democrazia e libertà. La scelta sembra così ridursi al ventaglio di possibilità fra una tecnocrazia illuminata, quando va bene, e un’autocrazia plutocratica.

È possibile invertire la rotta? Può l’economia tornare a «servire» la politica democratica e l’etica dei diritti? (e possono queste ritrovare legittimità e forza?) In che modo possiamo aumentare le possibilità che lo sviluppo economico e quello tecnologico imbocchino la strada giusta al bivio della storia, fra emancipazione e oppressione, fra prosperità o autodistruzione?

Ho scritto il Manifesto per un’altra economia e un’altra politica (Feltrinelli, 2025)per contribuire a trovare delle risposte. A partire dalla premessa, fondamentale: se sia possibile o meno invertire la rotta. La prima parte, ricorrendo a un po’ di storia, cerca di smontare alcuni luoghi comuni (ma che in realtà sono il portato di una battaglia culturale vinta dai neo-liberali sin dagli anni Settanta del Novecento). Non è vero che there is no alternative. Politiche radicalmente diverse da quelle neo-liberali sono state sperimentate, nel Novecento, e con un certo successo. Non erano quelle comuniste (che sono fallite). Ma quelle keynesiane e socialdemocratiche fondate sulla compresenza di programmazione e mercato, di intervento pubblico e iniziativa privata, e che hanno accompagnato l’epoca d’oro del capitalismo occidentale, segnando non solo la maggiore crescita delle nostre economie, ma anche un’eccezionale (anche perché pacifica) riduzione delle disuguaglianze e l’affermazione dei diritti sociali; e con esse, in aggiunta, l’allargamento dei diritti civili e degli spazi di libertà, non la loro riduzione come paventavano i critici della mano pubblica.

Di contro, le politiche neo-liberali sono state un fallimento in termini di benessere, soprattutto nel paese che le ha maggiormente teorizzate, praticate, esportate: si pensi che nel 1980 la speranza di vita negli Stati Uniti era di un anno in più rispetto all’Unione Europea, oggi è di tre anni in meno (e di quattro rispetto al Canada). Non solo, quelle politiche hanno creato disuguaglianze che hanno contribuito all’attuale crisi della democrazia: negli Usa ma anche negli altri paesi occidentali e in Europa (Italia compresa). E sono state perfino deludenti dal punto di vista economico: tenendo conto del costo della vita, cioè a parità di potere d’acquisto, dal 1990 al 2024 il Pil pro-capite europeo è salito dal 63 al 73% di quello Usa (dati della Banca Mondiale). Fuori dall’Occidente, in questi decenni l’uscita di centinaia di milioni di persone dalla povertà si deve, in larga parte, alla Cina, che ha introdotto massicci incentivi di mercato senza indebolire l’intervento pubblico – peraltro anche questi risultati sarebbero oggi messi in discussione, se si considera propriamente l’aumento dei prezzi dei beni essenziali o la cancellazione in Cina dei servizi gratuiti. Non è vero quindi che non esista alternativa né, tantomeno, che l’intervento pubblico sia necessariamente inefficiente o nocivo per l’economia. Spesso anzi le economie miste, che contemperano vari principi (competizione, cooperazione, programmazione) e utilizzano strumenti differenti, crescono di più, e meglio, di quelle dominate dal laissez-faire.

Nella seconda parte il Manifesto riflette quindi su come cambiare il nostro modello economico, nella direzione auspicata. Tre sono le grandi aree di intervento: la riduzione delle disuguaglianze, la tutela degli ecosistemi, la creazione e diffusione dell’innovazione.

Le disuguaglianze sono innanzitutto quelle economiche, nei redditi e nella ricchezza. Negli ultimi decenni la ricchezza dei multimilionari è cresciuta, in termini assoluti e relativi, semplicemente per la liberalizzazione dei mercati finanziari realizzata alla fine del Novecento: gli asset finanziari rendono più di quelli reali e ciò, oltre ad alimentare le disuguaglianze, scoraggia l’innovazione, vale a dire gli investimenti produttivi. Inoltre, questi multimilionari pagano meno imposte, in rapporto al reddito, della stragrande maggioranza della popolazione, perché i redditi sul patrimonio sono tassati meno di quelli da lavoro (vale anche per le stock options che ingrossano il reddito dei dirigenti). Occorre adeguare la tassazione sulle rendite finanziarie a quella sul lavoro, rendendola progressiva, e introdurre un’imposta sui grandi patrimoni (sostenibile, se inferiore al tasso di rendimento reale dei capitali). Sono misure di equità, indispensabili per rafforzare il welfare e i beni pubblici, ma anche per scoraggiare la rendita e la speculazione e favorire l’imprenditoria innovativa. I singoli governi possono muoversi autonomamente in questa direzione, ma i risultati saranno limitati perché le risorse sono altamente mobili. Quindi, occorre un accordo globale per regolare i movimenti a breve termine e contrastare la finanza speculativa, come all’epoca di Bretton Woods (1944-1971), e per istituire un catasto mondiale dei patrimoni finanziari, che consenta fra l’altro di eliminare i paradisi fiscali (ci torneremo).

Sull’ambiente, la scienza ci dice senza ombra di dubbio che l’attuale modello economico sta portando alla distruzione degli ecosistemi e della vita sulla Terra. Le politiche attuate finora, pure utili, in linea di massima non sono sufficienti e rischiano di avvantaggiare i partiti antiambientalisti, perché i costi ricadono sul ceto medio e sui più deboli. Per salvare l’ambiente, salvaguardando la libertà delle nostre democrazie, è necessario cambiare modello economico: l’intervento pubblico non deve limitarsi a regolare e programmare, ma deve anche investire e innovare, in collaborazione con il privato e con il terzo settore. Le risorse possono provenire dal debito (scaricandole così sulle generazioni future, cui però lasciamo un pianeta migliore) o dalla tassazione dei più ricchi: una misura quest’ultima eticamente condivisibile perché sono i più ricchi – individui (i milionari) o paesi (il Nord rispetto al Sud globale) – che inquinano (o hanno inquinato) di più senza pagarne in misura corrispondente le conseguenze. La questione ambientale è anche un enorme questione sociale e non si può risolvere se non cambiando il paradigma economico (a meno di rinunciare alla nostra democrazia).

Il pensiero neo-liberale concepisce le disuguaglianze (e la distruzione dell’ambiente) come il sale, o il prezzo da pagare, per la crescita e l’innovazione. Non è affatto così. I fattori condizionanti dipendono dai contesti storici; oggi le disuguaglianze e la devastazione dell’ambiente risultano di ostacolo alla crescita. Vale anche, e forse ancora di più, per l’istruzione e l’innovazione, nel lungo periodo l’unica via sicura per la prosperità (quella che fa aumentare le dimensioni della torta). La stessa ascesa dell’Occidente, nell’Ottocento, è stata resa possibile da una diffusa istruzione di base e da un efficace sistema di incentivi all’innovazione. Oggi però siamo tornati a un’istruzione elitaria (specie di qualità, quella che più conta ai nostri giorni) e a un sistema monopolistico dell’innovazione (attraverso l’uso distorto che le grandi corporations fanno dei brevetti). Modificare radicalmente questi aspetti è una scelta di equità che favorisce, anche, l’innovazione e quindi la crescita: occorre tornare a un’istruzione pubblica di qualità, che sia ascensore sociale; ma anche creare un sistema pubblico e condiviso per la ricerca di base e sostituire, per la ricerca applicata, i brevetti con i premi (un tipo di incentivo che non pregiudica la diffusione dell’innovazione), ad esempio sotto forma di royalties, come suggerito da diversi economisti dell’innovazione (cfr. Intellectual Property Rights: Legal and Economic Challenges for Development, a cura di M. Cimoli, G. Dosi, K.E. Maskus, R. Okediji, J.H. Reichman e J.E. Stiglitz, Oxford University Press, 2014).

Il Manifesto parla anche, però, di come cambiare la politica, nel mondo democratico, affinché torni a svolgere il ruolo che le compete. Questo vuol dire, per prima cosa, attuare una serie di riforme (tra cui legge elettorale proporzionale e sistema parlamentare, finanziamento pubblico dei partiti in cambio della trasparenza e democraticità della loro vita interna e creazione di fondazioni di studio) che favoriscono una democrazia rappresentativa e la formazione di una classe politica preparata e indipendente dai poteri economici: sapendo ovviamente (come per l’economia) che la strada non è mai sicura, non vi è una formula certa nella storia, ma che vi sono norme e condotte che favoriscono il consolidamento di una sana, e libera, democrazia – o viceversa.

Ma cambiare la politica significa anche tornare ad appassionare: e per farlo occorre dare alle persone che credono nell’ideale di libertà e uguaglianza, nei diritti umani complessivamente intesi (civili e politici, sociali, ambientali), un senso di appartenenza ideale e un orizzonte, possibile, a cui guardare; anche al di là dei singoli punti programmatici. Questo vuol dire innanzitutto, io credo, non abbandonare la speranza di un assetto internazionale fondato sulla cooperazione e sullo stato di diritto, che permetta all’umanità di affrontare le grandi sfide che ha davanti; e anzi lavorare per arrivarci. A questo scopo una Costituzione della Terra, come quella elaborata ad esempio da Luigi Ferrajoli (Per una Costituzione della Terra. L’umanità al bivio, Feltrinelli, 2022), rappresenta la prosecuzione coerente – più ambiziosa, adatta ai tempi – della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo approvata nel 1948 e della Carta delle Nazioni Unite. Fra i temi portanti, vi sono la cooperazione per l’equità fiscale (a partire dalla creazione del citato catasto mondiale dei patrimoni finanziari), nella ricerca scientifica (a partire dalla medicina), il rafforzamento dei beni pubblici globali (a partire dall’ambiente); e ancora, la messa al bando dei beni nocivi per l’umanità, il governo delle piattaforme tecnologiche.

La via per avvicinarsi al nuovo assetto globale può essere un accordo – fra l’Occidente, la Cina e i paesi del Sud del mondo – per la liberalizzazione del commercio (ancorandolo a principi etici: il rispetto dei diritti sociali e ambientali) e della ricerca di base; in cambio del governo della finanza internazionale e di politiche ambientali condivise, e di passi avanti concreti sui diritti umani fondamentali. È una visione dell’ordine internazionale opposta a quella muscolare, nazionalista e neo-protezionista di Trump. Ed è una visione che, se fatta propria dalle forze democratiche e progressiste dei paesi occidentali, potrebbe, assieme a un programma concreto di riforme nazionali, restituire loro utilità e forza, in questa fase nuova della storia mondiale.