Finanza

Per nuove politiche di sviluppo

La proposta di Quadro Finanziario dell’Unione per il 2028-34 riduce significativamente le voci di bilancio per la coesione e l’agricoltura, aumenta una voce genericamente denominata ‘Competitività’ e introduce consistenti riserve e preferenze per nuove priorità come la difesa. Infine, il Quadro finanziario instaura una relazione bilaterale tra Commissione e Stati Membri per la definizione degli Accordi ed il controllo del raggiungimento degli obiettivi in analogia al NGEU. Si tratta di novità che erano di fatto tutte annunciate. In questo articolo mi chiedo se davvero la fine della politica di coesione come la conosciamo sia una tragedia per il Mezzogiorno (Viesti su Menabò), e ricordo a me stesso le evidenze esistenti sulla sua utilità nella forma presente.

Formalmente Il budget aumenta da 1200 a 2000 miliardi nel prossimo ciclo, ma in termini di PIL europeo la crescita è solo dal 1,1 a 1,26%. Inoltre, 168 miliardi sono dedicati agli interessi sul debito contratto per NGEU e quindi la dimensione del budget di spesa primaria reale è molto simile a quella del ciclo 21-27. Il bilancio 2021-7, come tutti i precedenti, allocava circa 1/3 dei fondi ciascuna a agricoltura e coesione (circa 380 miliardi l’una) e 1/3 per tutte le altre. Il nuovo budget alloca 865 miliardi alle due priorità insieme, circa il 47% del totale della spesa primaria, ovvero quasi 15 punti in meno del budget precedente.

A determinare il ridimensionamento della coesione (e l’agricoltura) è stato certamente l’emergere di priorità assolute per la sopravvivenza dell’Unione come la difesa e la sicurezza energetica. Ma certamente contano anche le ripetute prove della sua relativa inefficacia in un arco temporale lunghissimo, soprattutto nel paese maggiore beneficiario, il nostro. A smentire la retorica secondo la quale l’inefficacia sarebbe dovuta alla mancata addizionalità della spesa, basti ricordare che tale mancanza è il prodotto della incapacità di realizzare i target di spesa e della necessità continua di riprogrammare i Piani rendicontando spese già effettuate con fondi ordinari. Si consideri il ciclo 2007-13: nonostante il forte definanziamento dei fondi nazionali, la chiusura della rendicontazione finale avvenne con enormi difficoltà. Non si capisce quindi come potremmo avere maggiore addizionalità se la struttura di governo della policy non riesce a generare spesa sufficiente (e di qualità sufficiente), nemmeno dopo definanziamenti estesi.

La valutazione delle politiche pubbliche, e in particolare di quella di coesione, è da sempre un esercizio difficile per via della complessità dei fattori che influenzano lo sviluppo. Le tecniche econometriche controfattuali hanno migliorato l’affidabilità dei risultati. In Italia, la politica di coesione è tra le più studiate: la “Nuova Programmazione” ha prodotto un’enorme base dati (OpenCoesione). I Nuclei di Valutazione istituiti da Fabrizio Barca hanno generato documenti al massimo descrittivi ma non valutazioni economiche significative, mentre la ricerca accademica e la Banca d’Italia hanno prodotto le analisi più rilevanti.

Le principali evidenze sono di effetti incerti e molto differenziati a livello europeo. Una grande maggioranza di lavori trova un effetto nullo nel medio periodo o persino negativi nel nostro paese (per una sintesi efficace vedasi Documento di Valutazione del Senato della Repubblica). Alcuni lavori dimostrano anche un legame tra politiche di coesione e diseguaglianza nei territori del Mezzogiorno, probabilmente in connessione con l’uso clientelare delle risorse (vedi Accetturo e De Blasio, 2020). La Commissione Europea stessa ha espresso dubbi sull’efficacia complessiva per quanto riguarda l’Italia. In Europa, i risultati variano fortemente: Germania e Paesi dell’Est mostrano benefici tangibili, mentre l’Italia evidenzia un impatto minimo, soprattutto dopo la crisi finanziaria. La differenza principale sembra dipendere dalla qualità della governance su cui c’è una vastissima evidenza.

Gli indicatori di “Quality of Government” (QoG) di Charron, Dijkstra e Lapuente (2014) mostrano una disomogeneità estrema all’interno dell’Italia: dal 59° posto di Bolzano al 197° della Campania su 199 regioni europee. Tale divario è doppio rispetto a quello di qualunque altro paese UE. La letteratura converge nel ritenere che una bassa qualità istituzionale — corruzione, inefficienza, scarsa trasparenza — riduca drasticamente l’impatto dei fondi.

Numerosi lavori (Becker et al., 2012) mostrano poi che la spesa per coesione ha rendimenti decrescenti: oltre certi importi i benefici marginali calano. In regioni molto arretrate, un eccesso di trasferimenti può persino deprimere la crescita (Cerqua e Pellegrini, 2018). Rodríguez-Pose e Garcilazo (2015) poi mostrano che oltre certe soglie di spesa la bassa QoG trasforma la spesa aggiuntiva in inefficienza: più fondi, peggiori risultati. La capacità di assorbimento dei fondi — la rapidità nell’attuazione dei programmi — è un’altra variabile chiave: l’Italia è costantemente agli ultimi posti.

Oltre alla quantità conta il tipo di spesa. L’Italia destina meno risorse a infrastrutture, innovazione, energia e istruzione — settori a elevato contenuto di capitale — e più a politiche sociali e occupazionali (Coco e Lagravinese, 2021). Le regioni che convergono di più spendono invece maggiormente su investimenti materiali e capitale umano. Parte di questa distorsione deriva anche dalle difficoltà di realizzare opere complesse nel nostro sistema amministrativo, che a sua volta è intrinsecamente legata alla logica della concertazione e dei poteri di veto conferiti con la peculiare ideologia alla base della Nuova Programmazione a ogni soggetto concertante.

I provvedimenti simbolo della politica di coesione in Italia sono la prova più evidente del fallimento intrinseco della logica a base della politica di coesione. La Strategia Nazionale per le Aree Interne (SNAI), avviata nel 2014 con 600 milioni di dotazione è l’intervento paradigmatico per giudicare le politiche di coesione in Italia. Nata opportunamente per migliorare i servizi essenziali nelle zone più isolate, la SNAI è fondata sulla concertazione e una programmazione mastodontica dal basso affidata a Comuni di dimensioni piccolissime. La SNAI non ha prodotto alcun risultato. Nel 2021, solo 42 delle 72 aree identificate nel 2014 avevano sottoscritto l’Accordo Quadro, l’atti di programmazione necessario all’attuazione, e nel Mezzogiorno appena 11 su 27. A otto anni dall’avvio su 400 milioni di fondi monitorati erano stati spesi appena 120. Intanto vari Ministri avevano incomprensibilmente aumentato la dotazione della SNAI a oltre un miliardo. Il divario territoriale nella SNAI è enorme: quasi tutte le aree del Sud non hanno speso nulla. Nonostante l’evidente fallimento, la SNAI resta popolare tra gli operatori della coesione e un tentativo recente di ridefinirne i contorni è andato incontro ad accuse di omicidio delle aree interne. Gli esiti della SNAI ricordano i Patti Territoriali degli anni ’90, che secondo la Banca d’Italia (Accetturo e De Blasio, 2012) non produssero alcun effetto economico misurabile. In generale il modello della concertazione delle decisioni ha prodotto un aumento della complessità e quindi delle difficoltà di realizzazione di qualunque progetto complesso, e dei costi politici di breve periodo. Allo stesso tempo la sovrapposizione di competenze elimina la responsabilità politica del fallimento.

La crisi dell’intervento delle politiche di coesione imponeva da tempo una riforma profonda, in Italia e in Europa. Tuttavia, la riforma ha incontrato ostacoli culturali e organizzativi: la Nuova Programmazione ha formato un apparato burocratico e una classe dirigente ed accademica cresciuti dentro quella logica, che ancora resistono al cambiamento, anche a fronte di prove evidenti. Proprio per questo è forse l’Italia ed il Mezzogiorno che potrebbero guadagnare di più da una riforma, ma ad alcune condizioni.

La prima è che la ripartizione delle voci di bilancio avvenga sulla base di criteri che comunque privilegino i paesi in ritardo, anche per i programmi del nuovo capitolo ‘Competitività’ da 409 miliardi (24% del budget). In particolare, i criteri per questa voce dovrebbero contemplare delle riserve per le regioni meno competitive. A mio parere questa dovrebbe essere la battaglia di un autentico meridionalista, piuttosto che insistere per il mantenimento in vita di assetti fallimentari di potere. Questo obiettivo non potrà essere conseguito con allocazioni regione per regione, ma piuttosto con quote di riserva su scala europea per le classi di regioni meno competitive che premino chi è in grado di fare progettazioni e utilizzare i fondi in maniera produttiva, alla stregua della riserva del 40% per il sud del PNRR. Ovviamente sarà necessario poi che la spesa nazionale sostenga la progettualità a favore del Mezzogiorno se si vuole essere in grado di approfittare di questa riserva. Inoltre, è necessario fare attenzione alla allocazione del maxi-fondo tra la Coesione e Agricoltura a livello nazionale. Esiste il pericolo che nella suddivisione dei fondi le priorità della politica agricola prevalgano per ragioni di maggiore ‘coesione’ e organizzazione della lobby. Sarebbe quindi auspicabile che il Quadro finanziario preveda dei vincoli minimi sulla destinazione dei fondi alla Coesione. La recente comunica zione della Presidente al Parlamento introduce vincoli sulle risorse minime da destinare alle zone rurali e per le regioni ricche, ma si tratta di vincoli insufficienti. Infine, è necessario che l’assetto di governo dei fondi, che dovrà essere coordinato molto più strettamente da istituzioni nazionali, funzioni in maniera adeguata senza mortificare l’autonomia delle regioni con una suddivisione più chiara di ruoli e responsabilità.

La riforma potrà essere vantaggiosa per l’Italia ed il Mezzogiorno perché potrebbe finalmente costringere a comportamenti più virtuosi nell’allocazione della spesa verso poste orientate allo sviluppo, piuttosto che a confusi obiettivi di ‘coesione’, e nella riduzione della frammentazione dell’intervento, conseguenza naturale della logica delle politiche di coesione.

L’ultima riflessione la riserverei all’uso del termine ‘coesione’ per designare una policy. Negli ultimi anni si è diffusa una teoria secondo la quale una forte redistribuzione territoriale è essenziale per preservare la coesione ed evitare la crescita di movimenti populisti (Rodriguez-Pose, 2025). A mio parere la coesione nasce da una condivisione di culture e valori, e l’esperienza leghista in Italia dimostra che movimenti antisistema possono crescere anche nei luoghi sviluppati che contribuiscono risorse. La parola coesione può essere svuotata di significato soprattutto se i trasferimenti legati a quella politica si rivelano privi di effetti sulla vita delle persone per tempi lunghissimi. In questo caso può generare un crescente cinismo. È quello che è accaduto alla Cassa per il Mezzogiorno negli anni 80, nonostante i successi straordinari nella modernizzazione del Mezzogiorno degli anni 50/60. La cd. Nuova Programmazione non ha prodotto nemmeno quei risultati.