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Finanza

Ogni madre è diversa. E la child penalty? Pure*

L’impatto della maternità sui percorsi lavorativi delle donne è diventato un tema di grande interesse per il dibattito pubblico nei paesi occidentali ed è ampiamente studiato dalla letteratura economica. Tanti contributi mostrano l’esistenza della cosiddetta child penalty, ossia la penalizzazione salariale-occupazionale che colpisce le madri (ma non i padri) in seguito alla nascita di un figlio, fenomeno che con diversi gradi di intensità è presente in tanti paesi del mondo, inclusa l’Italia, con le sue specificità. Come evidenziato nel Rapporto Annuale Inps, se è vero che, in generale, diventare madre ha un prezzo, non tutte le madri pagano però lo stesso conto. L’indagine da noi condotta, svolta utilizzando i dati amministrativi dell’Istituto si concentra sui lavoratori e lavoratrici che hanno avuto il primo figlio tra il 2013 e il 2016, osservandone le retribuzioni nei tre anni precedenti e nei sette anni successivi alla nascita. L’impatto viene misurato sul reddito da lavoro (compresi trasferimenti da congedi e maternità), include effetti fissi individuali, ed è condizionato alla presenza sul mercato del lavoro.

Un figlio cambia tutto. Due o tre, ancora di più. Il primo elemento che emerge con forza è il ruolo della dimensione della famiglia. Come si nota dalla Figura 1, la nascita del primo figlio produce per tutte le madri un’immediata caduta retributiva. Tuttavia, le donne con un solo figlio riescono a recuperare completamente il livello salariale entro tre anni, tornando a un percorso di crescita. Al contrario, le madri con due o più figli sperimentano nuove cadute nei due o tre anni successivi, si presume in corrispondenza delle nascite successive.

Il risultato è un percorso molto più frammentato: il recupero si allunga, e mentre le madri con due figli tornano a livelli pre-nascita solo tra il quarto e il sesto anno, quelle con tre o più figli non riescono a colmare il divario nemmeno dopo sette anni. Anche se la penalizzazione non è più statisticamente significativa, il coefficiente resta negativo, segno che la maternità multipla ha effetti duraturi e difficili da superare.

Per i padri, la storia è completamente diversa: le traiettorie retributive restano stabili e in crescita, indipendentemente dal numero di figli.

Figura 1 – Child penalty per madri e padri e dimensione della famiglia

L’età alla maternità: una linea di frattura. Una seconda dimensione cruciale è l’età della madre alla nascita del primo figlio. Le madri che diventano tali tra i 20 e i 35 anni sembrano più resilienti: recuperano il livello retributivo più rapidamente, già tra il terzo e il quarto anno. Ma questa ripresa è condizionata da un effetto selettivo importante: sono anche le donne più esposte al rischio di uscita dal lavoro.

Nel picco massimo, all’anno della nascita, il 25% delle madri under 35 lascia il settore privato, contro il 12% delle madri over 35 (Figura 2). Questo suggerisce che la maternità, per le donne più giovani, agisce come un fattore selettivo: solo chi ha prospettive lavorative solide riesce a restare nel mercato e a recuperare. Le altre, spesso inserite in posizioni fragili o precarie, tendono ad abbandonare.

Per le madri tra i 36 e i 45 anni il quadro è diverso: la permanenza lavorativa è più stabile, ma il recupero salariale più lento. Inoltre, si osservano due picchi di uscita: uno all’anno della nascita e uno due anni dopo, probabilmente legato a una seconda gravidanza concentrata in una finestra temporale ristretta.

Anche per i padri si notano differenze legate all’età, ma con implicazioni meno gravi. I padri più giovani mostrano una crescita retributiva più sostenuta, mentre quelli più maturi seguono un profilo più piatto. Tuttavia, in nessun caso la nascita del figlio rappresenta uno shock per gli uomini, né in termini salariali né occupazionali.

Figura 2: Probabilità di uscita dal mercato del lavoro per madri e padri ed età

Nord e Sud, un’Italia ancora divisa. La terza linea di frattura è geografica. L’impatto della nascita di un figlio varia sensibilmente in base all’area di residenza. Sul piano retributivo, le madri del Nord mostrano una caduta iniziale più marcata, che però si assorbe rapidamente – entro il secondo anno – probabilmente grazie a contesti lavorativi più strutturati e alla maggiore diffusione di strumenti come congedi e aspettative, che riducono temporaneamente l’imponibile. Al Sud, invece, il calo è meno pronunciato, ma il problema principale è la permanenza nel mercato del lavoro.

Nel Mezzogiorno, la probabilità di uscita dal settore privato dopo la nascita del figlio raggiunge il 26%, contro il 18% nel Centro-Nord. Questo riflette una maggiore fragilità dei percorsi lavorativi femminili nel Sud, dove la maternità si traduce spesso in un’interruzione definitiva dell’attività lavorativa (si veda Figura 3).

Anche per i padri si osservano differenze territoriali: nel Mezzogiorno, la probabilità di uscita dal settore è più alta, ma non presenta picchi associati alla nascita di un figlio. Ancora una volta, la genitorialità non altera le dinamiche maschili.

Figura 3- Probabilità di uscita dal mercato del lavoro per madri e padri e area geografica

Pubblico e privato: stessa legislazione, due velocità. Una delle differenze più nette emerge tra settore pubblico e privato. Le madri che lavorano nel pubblico subiscono una penalità salariale contenuta (5 punti logaritmici all’anno di nascita del figlio, 14 nel successivo), inferiore a quella del privato (rispettivamente 14 punti e 30 punti logaritmici).

Questo divario non sembra giustificato da differenze normative, poiché la tutela legale della maternità è analoga nei due comparti. La spiegazione va cercata altrove, ad esempio è probabile che nel privato le donne ricorrano più frequentemente a part-time o congedi prolungati, rendendo più “costoso” il rientro (si consideri che le analisi Inps hanno evidenziato che circa il 62% delle madri di bambini nati nel corso del 2012-2013 dipendenti nel settore privato ha fruito del congedo parentale almeno una volta nel corso dei 12 anni di vita dei figli; di queste il 41% circa ne ha fruito per più di 180 giorni complessivi). Già dal terzo anno successivo alla nascita del bambino però, le traiettorie retributive dei due settori sono praticamente sovrapposte, annullando quindi le differenze. Permane, invece, una sostanziale differenza nella probabilità di exit nei due settori; quasi il 20% delle madri lascia il settore privato alla nascita del figlio, contro meno del 10% nel pubblico (si veda Figura 4). Questo è presumibilmente frutto di un diverso ricorso al tempo determinato nei due settori; una maggiore stabilità della posizione lavorativa si traduce, di fatto, in una misura a tutela della permanenza effettiva delle madri sul mercato del lavoro.

Per i padri, come negli altri casi, la nascita di un figlio non altera significativamente la dinamica.

Figura 4: Probabilità di uscita dal mercato del lavoro delle madri per settore

Conclusioni. La maternità non ha quindi un impatto uniforme, ma tende a rafforzare disuguaglianze preesistenti. La child penalty riflette le asimmetrie di genere nelle responsabilità familiari, le debolezze dei territori e le differenze tra posizioni lavorative e settori. Intervenire su queste dinamiche richiede un impegno strutturale, volto a sostenere la permanenza delle donne nel mercato del lavoro anche dopo la maternità, promuovendo non solo un migliore equilibrio tra vita privata e professionale (gli interventi più efficaci sono quelli che integrano sostegno al lavoro e alla famiglia), ma anche condizioni lavorative stabili e valorizzanti sin dalle fasi iniziali del percorso occupazionale, quindi già prima – e a prescindere dalla genitorialità.

Se, come emerge dall’analisi, i contesti in cui le penalizzazioni sono maggiori per le madri coincidono con le realtà economiche più deboli e in cui il lavoro è meno tutelato, allora gli interventi necessari devono inevitabilmente includere non solo il contrasto al gender gap e la promozione di modelli più equi di condivisione delle responsabilità di cura, ma anche un’azione mirata a rafforzare i comparti più fragili dell’economia, migliorandone la capacità di offrire opportunità occupazionali stabili e di qualità.


* Le opinioni qui espresse e le conclusioni sono attribuibili esclusivamente alle autrici e non impegnano in alcun modo la responsabilità dell’Istituto di appartenenza. L’articolo è pubblicato in contemporanea su lavoce.info.