L’Europa, i dazi e il club post-americano
Non è chiaro quanto il tourbillon trumpiano sui dazi (annunciati, imposti, ritirati, rimessi, sospesi, alzati, ridotti) risponda a un qualche disegno di riassetto dell’ordine internazionale dei commerci e di risanamento della bilancia commerciale Usa, continuando a difendere il dollaro come valuta di riserva o, invece, sia soltanto parte del tentativo di riaffermare (o ripristinare) il sempre più fragile potere egemonico degli Stati Uniti nel mondo. Tentativo per il quale i dazi funzionano tanto da grimaldello per scardinare il vecchio ordine che da clava per ricondurre a più miti consigli i partner riottosi.
Quali che siano i reali intenti del Presidente Trump e della sua amministrazione (ammesso che coincidano e siano chiari a loro stessi), non sembra sia molto produttivo, in particolare per l’Europa, lasciarsi imbrigliare in umilianti e sterili negoziati su questa o quella categoria di prodotti. Negoziati e discussioni che, con elevata probabilità, si risolverebbero in una qualche capitolazione europea – magari sotto minaccia di ritiro dell’ombrello difensivo americano sul vecchio continente – e nel rigonfiamento dell’ego (già ipertrofico) del Presidente americano. Tra l’altro non è improbabile che i dazi si rivelino in un periodo non troppo lungo un boomerang per gli Usa (vista l’integrazione mondiale delle catene del valore) e che Trump sia costretto dalla reazione dei mercati e dalla pressione dei suoi stessi sostenitori a cancellarli, almeno in parte.
Inoltre, sarebbe un errore con notevoli conseguenze limitarsi a temporeggiare in attesa che passi la nottata dei quattro anni presidenziali. La prima ragione è che le trame di Trump per un terzo mandato potrebbero anche andare a buon fine (per lui). La seconda è che il trumpismo non è un virus venuto da chissà dove e che com’è venuto se ne andrà: è il sintomo di una malattia grave che ha colpito ampie porzioni del mondo delle democrazie liberali. La terza è che è illusorio credere che il ruolo dell’America nel mondo e con l’Europa torni quello di prima di Trump; il cambiamento è cominciato molto prima della sua incoronazione.
A ben vedere, la questione cui rispondere non è solo commerciale. Trump, da quando si è insediato il 20 gennaio scorso, ha attentato all’ordine socio-economico mondiale (trascuriamo, per incompetenza, quello politico-militare): nel giorno del suo insediamento Trump ha ritirato gli Usa dalla World Health Organization (WHO) di cui erano i maggiori finanziatori, mettendo a rischio la cooperazione mondiale in tema di prevenzione delle pandemie; il giorno dopo Trump ha annunciato il ritiro degli Usa dagli accordi di Parigi sul cambiamento climatico, dando il segnale che il maggior paese inquinatore (pro capite) del mondo ha intenzione di seguire solo le sue convenienze (di breve periodo) e di contribuire senza freni al riscaldamento globale; l’ineffabile presidente americano ha anche abbandonato l’accordo del 2021 (tra oltre 140 paesi e già ratificato da 40) sulla tassazione minima del 15% sui profitti delle multinazionali, indipendentemente dal paese in cui vengono realizzati.
Come suggerito da Olivier Blanchard e Jean Pisani-Ferry lo scorso marzo su Project Syndacate, “di fronte a fatti sì enormi”l’Europa dovrebbe farsi promotrice di una vera “coalizione dei volenterosi” per costruire, sulle questioni appena dette (e ovviamente sul commercio internazionale) un club retto da accordi multilaterali con il maggior numero possibile di paesi, a cominciare da quelli del Sud globale, dall’Africa all’America latina, dall’India al Sud-est asiatico. Un accordo, verosimilmente, senza gli Usa, o quantomeno senza gli Usa di Trump, e che perciò cominci a configurare un mondo post-americano (sia pure a geometria variabile), come dicono i prestigiosi autori citati. L’Europa ha già siglato gli accordi di libero scambio con il Mercosur, anche se alcuni paesi si opponevano, e ha avviato negoziati con Messico e India e sta studiando di formare un’alleanza con la Comprehensive and Progressive Agreement for Trans-Pacific Partnership (CPTPP). Vediamo, per sommi capi, come potrebbe essere costruito questo club.
Partiamo dalla ragione sociale: creare le condizioni di mutuo vantaggio per un’area di libero scambio, e per le politiche necessarie ad affrontare alcune grandi questioni ambientali e sociali. I partecipanti condividono che il mercato globale, in assenza di una cooperazione multilaterale, ha palesato rilevanti difetti, con gravi conseguenze sull’equità e sostenibilità economica, sociale e ambientale, che hanno gettato i semi della dis-integrazione che stiamo vivendo. Le linee guida per una gloobalizzazione intelligente non mancano, come quelle proposte da Dani Rodrik (Laterza, 2015). E nel cosiddetto Sud Globale del mondo sembra rimanere vivo assai più che nel Nord-Ovest l’interesse per il free trade.
All’interno del club il commercio è libero, con dazi pari a zero, fatta salva la possibilità per i paesi più poveri di imporne (in dimensione e tempo limitati) per proteggere le loro “industrie nascenti” e correggere le persistenti storture della globalizzazione fatta finora a immagine e convenienza dei paesi ricchi.
Il freno al riscaldamento globale è, probabilmente, il campo in cui più urgente è dare attuazione ad accordi internazionali già esistenti (per esempio quelli di Parigi, dicembre 2015), anche aiutando i paesi più poveri a finanziare le necessarie spese per la decarbonizzazione e la transizione verde. Aiuti che, finora sono stati di molto inferiori a quanto concordato nelle varie Cop, a loro volta di molto inferiori al necessario. L’accordo qui suggerito potrebbe prevedere dazi sulle importazioni da paesi che non adottino efficaci politiche di riduzione delle emissioni di CO2, come un’adeguata tassazione delle emissioni (carbon tax) e non implementino le regolamentazioni e i programmi di investimento concordati per la conversione green delle proprie industrie. Si verrebbe così a creare un club di paesi climaticamente responsabili. Vale la pena di sottolineare come tutte e tre le “gambe” della politica ambientale appena menzionate siano cruciali per stare nel club (e sperare di salvarsi dai disastri del cambiamento climatico già in corso).
Altre materie rilevanti in tema di beni comuni globali (come sicurezza, stabilità finanziaria e valutaria, tassazione, legislazione del lavoro, diritti di proprietà intellettuale) potrebbero essere aggiunte via via, ma crediamo sia opportuna una costruzione per gradi.
Passiamo alla regola fondamentale: si paga per restare fuori anziché per entrare. L’adesione al club è libera. I membri hanno la facoltà d’imporre dazi commerciali ai paesi terzi che decidono di non aderire. Tale opzione va esercitata secondo criteri ben definiti a priori, trasparenti, non arbitrari, e in maniera concordata con gli altri membri. Trattandosi dell’aspetto più innovativo, ma anche controverso, ne esaminiamo i punti principali.
Il suggerimento di imporre dazi alle importazioni dei paesi esterni al club degli ambientalmente responsabili è venuto, dieci anni fa, dal premio Nobel americano William Nordhaus (“Climate Clubs: Overcoming Free-riding in International Climate Policy”, American Economic Review, 2015). Come si evince dal titolo, la proposta è proprio volta a superare il problema del free riding all’interno dei club (e delle organizzazioni internazionali), di cui la letteratura economica si è estesamente occupata, con risultati perlopiù negativi o scettici (e i casi di successo non sono stati molti). Ricordiamo, in estrema sintesi, qual è il problema: se un gruppo di paesi attua politiche (costose) che hanno effetti positivi (esternalità) anche su terzi, come sarebbe certamente il nostro caso, nessuno ha l’incentivo a partecipare. La facoltà (minaccia) d’imporre un costo a chi non aderisce va ad annullare il godimento dell’esternalità gratuita. Naturalmente rimane possibile che un paese decida di non aderire se, ad esempio, valuta che il beneficio di inquinare liberamente sia maggiore del costo dei dazi sul proprio commercio coi paesi del club. Per rafforzare l’incentivo a partecipare, si potrebbe (e, a nostro avviso, dovrebbe) prevedere, per i paesi più poveri del club, sia una alleggerimento della carbon tax e delle altre politiche per restare nel club sia un trasferimento di almeno parte delle entrate di cui i paesi ricchi beneficiano grazie ai dazi ambientali.
Certo l’Europa dovrebbe superare il complicatissimo e probabilmente inefficace sistema di Carbon border adjustment mechanism (Cabm) da poco messo in piedi (i documenti applicativi prendono qualche centinaio di pagine e gli oneri burocratici ricadono sulle imprese importatrici). L’Europa – che è da sempre un’unione doganale e che da molti anni cerca di essere un mercato unico – ha piena competenza in materia di commercio estero, e quindi di dazi e tariffe (lo ha riconosciuto perfino un’orgogliosa sovranista come Giorgia Meloni) e ha acquisito crescenti competenze in materia ambientale. È proprio grazie alla combinazione delle competenze in materia commerciale e in materia ambientale che si è potuto varare il Cabm. Dalla medesima combinazione potrebbe scaturire l’attuazione della proposta di semplificazione ed estensione a un club internazionale di cui stiamo discutendo.
Il Cabm, si dice, è perfettamente in linea con le attuali regole del WTO (World Trade Organization), mentre il dazio di cui sopra potrebbe non esserlo. Tuttavia, c’è da chiedersi cosa sia ancora in piedi del WTO dopo il trattamento che alle regole del libero ed equo commercio internazionale hanno riservato la Cina e gli Stati Uniti, soprattutto sotto la prima e seconda presidenza Trump. Tuttavia, i dazi di cui si parla in queste note non sarebbero discriminatori, poiché verrebbero applicati alle importazioni di tutti i paesi che non accettano o non applicano gli standard sulle emissioni e il carbon pricing concordato, e pertanto si configurano come strumenti per correggere distorsioni di mercato e impedimenti di una equa cooperazione internazionale (impedimenti veri e non inventati, naturalmente) previsti dalla teoria economica seria (non quella abbastanza discutibile di Stephen Miran, il guru di Trump per il commercio internazionale). .
Non diversamente dal caso della CO2, si potrà estendere il meccanismo dei dazi correttivi sulle importazioni da paesi che si rifiutano di cooperare sulle materie che verranno via via incluse nella ragione sociale del club. Una di queste materie è la minimum global tax del 15% sui profitti delle multinazionali, volta a frenare la concorrenza al ribasso sulla tassazione delle grandi imprese e la conseguente erosione della base imponibile nei paesi con aliquote più elevate, perché le grandi imprese trasferiscono i profitti nei paesi in cui pagano tasse più basse. La minimum tax è stata approvata nel 2021, sulla base di una proposta maturata in sede Ocse. Oggi più di 140 paesi hanno aderito, ma gli Stati Uniti hanno ritirato la loro adesione e molti paesi, pur aderendo formalmente, non hanno implementato la minimum tax.
Vale la pena di ricordare che qualcosa di simile, con riferimento proprio alla tassazione dei profitti d’impresa e alla carbon tax, è stato proposto da Thomas Piketty in un articolo del 2020 (“Ricostruire l’internazionalismo”) riproposto nella recente raccolta Il socialismo del futuro (Baldini+Castoldi, 2024) e ripreso anche nell’ultimo capitolo del dialogo tra lo stesso Piketty e Michael Sandel (Equality. What it is and Why it Matters, Polity Press, 2025). Tuttavia, vi sono anche differenze decisive. Piketty pensa a dazi imposti da un solo paese (la Francia nella sua esemplificazione) che voglia alzare la propria tassazione sui profitti o sulle emissioni di carbonio. E giustifica l’approccio unilaterale dicendo che “se i singoli paesi non fanno qualcosa del genere e aspettano l’unanimità o una coalizione molto larga che risolva il problema per loro, non accadrà mai nulla”. Piketty, nel desiderio di affermare un nuovo “sovranismo universalista” (la definizione è sua), sembra trascurare che i dazi possono funzionare se sono imposti da un paese molto grande o da una coalizione di molti paesi. Se ad imporli è un paese che rappresenta una piccola quota delle esportazioni delle imprese del mondo i dazi hanno elevata probabilità di rivelarsi inefficaci e si presterebbero a ritorsioni e all’innesco di guerre commerciali.
Perciò a noi sembra che l’approccio multilaterale del club, promosso dall’Unione Europea, sia largamente da preferirsi. Nel complesso, si avrebbe un sistema concordato di dazi correttivi volti a promuovere un mondo più equo e che avrebbe serie probabilità di frenare il riscaldamento globale. Ben altro che dazi usati come clave da esibire (o nascondere) nel corso di ripetute, sgangherate esibizioni in mondovisione.