Le sfide del digitale e le risposte dell’antitrust: un esperimento naturale?
Il contrasto allo strapotere delle Big Tech continua ad essere il principale oggetto di interesse di gran parte delle autorità antitrust, per quanto sia sempre più evidente che i problemi sollevati dalle grandi piattaforme digitali sono ben più ampi di quelli di natura meramente concorrenziale, investendo questioni legate alla tenuta dei sistemi democratici e per le quali la strumentazione antitrust, per quanto utile, risulta inappropriata o, comunque, insufficiente. Questioni per le quali è innanzitutto la politica a giocare il ruolo principale.
È comunque interessante, restando entro i confini della politica della concorrenza, osservare la diversità delle risposte che, da entrambi i lati dell’Oceano, vengono suggerite a livello sovranazionale e/o nazionale per fronteggiare i problemi posti dalle grandi piattaforme digitali.
In un recente convegno Bill Kovacich, ex presidente della Federal Trade Commission (una delle due autorità antitrust degli Stati Uniti), repubblicano non-Trumpiano, ha sottolineato come oggi, osservando il ricco e variegato menù di contromisure, ci siano le condizioni, né più né meno, per un “esperimento naturale” (quando, cioè, l’osservazione di dati provenienti dal mondo reale consente di identificare relazioni di causa effetto, con metodi simili a quelli che si utilizzano in laboratorio per gli esperimenti scientifici) e verificare quale soluzione (o quale mix di soluzioni) sia il più efficace. Posto che si abbia chiaro cosa si intende per efficace…
La risposta regolatoria. Preso atto che un po’ ovunque, magari per ragioni diverse (limitata comprensione dei mercati digitali, timore di scoraggiare l’innovazione e/o generose elargizioni in occasione delle campagne elettorali), si è intervenuti tardivamente nei confronti delle Big Tech (quando in ragione delle caratteristiche dei mercati digitali, la loro posizione non era più “contendibile”), la risposta europea si è sempre più spostata dagli interventi ex-post (l’enforcement antitrust) alla regolazione ex-ante. Una regolazione centrata sul Digital Markets Act (DMA) e accompagnata da un discreto numero di altre regolazioni (il Data Act, il Digital Services Act, l’Artificial Intelligence Act, oltre al cervellotico GDPR che disciplina la protezione dei dati personali…) con obiettivi extra-concorrenziali. Una regolazione, soprattutto, basata su una lista rigida di obblighi e doveri per le piattaforme digitali (i dos and dont degli articoli 5 e 6 del DMA), ispirata alle condotte che i principali casi antitrust avevano sancito come abusive, e su presunzioni “non confutabili”. Una regolazione che dovrebbe garantire risposte più rapide e tempestive (“quick and timely response” è stato il mantra che ha portato all’approvazione del DMA). Una regolazione, infine, diretta alle sole piattaforme che integrano le caratteristiche di gatekeeper, con tanto di nomi e cognomi: di fatto una sola piattaforma europea, due cinesi e ben cinque americane, così che, al di là delle intenzioni, può far pensare a una misura protezionistica.
Anche il Regno Unito ha affiancato al diritto antitrust una regolazione specifica per i mercati digitali che, però, si distingue dal DMA per una maggiore flessibilità e, sebbene anch’essa si fondi su una logica presuntiva, per un’ampia possibilità di confutare le presunzioni.
In entrambi i casi la cooperazione tra antitrust e regolazione è evidentemente indispensabile. In entrambi i casi, tuttavia, non è chiaro quando si possa affermare che la regolazione abbia avuto successo. Nel caso del DMA si esplicitano gli obiettivi, invero piuttosto generici – fairness e contendibilità – sebbene i dos e dont sembrano garantire soprattutto una qualche “benevolenza” nei confronti degli utenti intermedi delle piattaforme (sviluppatori di applicazioni, inserzionisti, utilizzatori di dati…) piuttosto che nei confronti dei consumatori finali e, invece, non sembrano efficaci nella modifica della struttura dei mercati. Per comprendere meglio quale metrica sarebbe necessaria per misurare il successo della regolazione (nonché per verificare il raggiungimento di obiettivi che la disciplina antitrust non sarebbe in grado di raggiungere), forse sarebbe necessario esplicitare meglio gli obiettivi impliciti della regolazione (una maggiore trasparenza, l’accesso ai diversi versanti delle piattaforme, l’eliminazione dei vantaggi competitivi dei gate keeper…).
Ad oggi, il risultato dell’applicazione del DMA sono state le due multe irrogate a Apple (500 milioni di euro per aver ostacolato gli sviluppatori di app all’interno dell’ecosistema Apple) e a Meta (200 milioni di euro per aver obbligato gli utenti di Instagram e Facebook a sole due opzioni per usufruire dei servizi: pagamento in denaro o cessione dei dati individuali per pubblicità mirata). “Supermulte” per la stampa quotidiana ma, in realtà, poco più che argent de poche per le due piattaforme, con effetti di deterrenza a dir poco dubbi.
La necessità di coordinamento degli interventi antitrust nazionali e sovranazionali. L’attuale scenario ci offre anche la possibilità di confrontare le caratteristiche e l’efficacia degli interventi antitrust a livello sovranazionale e nazionale, quanto meno a livello europeo. In particolare, importanti decisioni ai sensi dell’art. 102 del TFUE (il divieto di abuso di posizione dominante) nei confronti delle principali piattaforme digitali sono state prese sia dalla Commissione Europea che dalle autorità dei singoli Paesi Membri nei confronti di Google, Meta, Amazon, Apple e Booking e, ad oggi, si possono osservare approfondimenti istruttori di rilievo sia a livello europeo che nazionale.
Da questo quadro, da un lato, emerge, il desiderio di contribuire delle autorità nazionali, non di rado impastato con la voglia di visibilità (i casi digitali sono più cool..) e con le pressioni dei governi, dall’altro e soprattutto, la necessità crescente di collaborazione tra autorità nazionali e Commissione Europea e di coerenza tra l’applicazione della disciplina antitrust con le previsioni del DMA.
Va detto, tuttavia, che il ruolo delle autorità nazionali può, in più di un caso, essere prezioso. Sebbene, infatti, le preoccupazioni di natura concorrenziale sollevate dalle Big Tech siano quasi sempre di dimensione sovranazionale e richiedano (o quanto meno richiederebbero) omogeneità di soluzioni a livello globale, il contributo delle autorità nazionali può essere utile sia perché meglio posizionate della Commissione Europea sia per integrare le risorse di Bruxelles.
Il Paradosso e la “rivincita” dell’antitrust? La destrutturazione delle Big Tech ai tempi di Trump?. Infine, oggi è particolarmente interessante guardare ai casi antitrust in corso di svolgimento oltre Oceano e soprattutto al loro esito. Un esito che, in linea di principio, potrebbe persino prefigurare lo “spezzatino” di Google (il DOJ dinanzi al Corte del Distretto di Columbia ipotizza la cessione del browser Chrome) e in un altro caso la FTC minaccia di imporre a Meta la cessione di Instagram e WhatsApp.
In verità, l’ipotesi di rimedi strutturali sembra piuttosto improbabile con giudici in buona misura nominati da Trump durante il primo mandato e in un contesto fresco di radicali cambiamenti ai vertici delle due autorità antitrust, con il nuovo presidente della FTC che, in occasione della conferenza annuale della rete che riunisce le autorità antitrust di tutto il mondo (l’International Competition Network)che si è tenuta all’inizio di maggio a Edimburgo, spende buona parte del suo intervento a criticare la regolazione europea, considerandola parte della guerra commerciale con gli Stati Uniti e altrettanto dannosa quanto gli eventuali abusi delle Big Tech.
Tuttavia, se almeno una delle corti statunitensi prendesse in considerazione l’ipotesi di una destrutturazione di una delle Big Tech, si arriverebbe, con la disciplina antitrust, ad un risultato che né le decisioni antitrust della Commissione Europea ne, tantomeno, la regolazione sono fin qui riuscite ad ottenere. Si potrebbe parlare della “rivincita” dell’antitrust? Ai tempi di Trump e dell’America First Antitrust, può sembrare un vero paradosso…
La nostalgia della voglia di cooperazione, quando nasceva l’ICN e si parlava persino di autorità globale…Se il quadro è accademicamente senz’altro interessante e si presta effettivamente a un “esperimento naturale”, è altresì preoccupante l’estrema frammentazione e l’ordine sparso con il quale il mondo della concorrenza si confronta con le sfide delle grandi piattaforme digitali.
E, al di là delle rivincite vere o presunte e in attesa di capire l’efficacia delle nuove regolazioni, di riconsiderare gli eventuali limiti dell’antitrust, una cosa è certa: anche nella politica della concorrenza – dove nel recente passato, almeno per il controllo delle concentrazioni e la lotta ai cartelli, si era raggiunto un livello di convergenza decoroso, non solo all’interno dell’Unione Europea ma anche a livello globale – si percepisce la crisi del multilateralismo e si avverte come non mai l’esigenza di collaborazione a livello globale.
Almeno a livello Europeo l’auspicio di un più elevato grado di cooperazione e di una crescente complementarità tra regolazione e disciplina antitrust è doveroso. Solo con l’accresciuta consapevolezza di quanto sia necessaria la collaborazione tra istituzioni sarà possibile rendere più incisive le regole della concorrenza (meno ossessionate dal rischio di errori di tipo 1 e di incoerenza con il DMA). A livello più ampio, aspettarsi oggi una maggiore sensibilità per la cooperazione internazionale potrebbe sembrare velleitario.
Appare lecita, però, una qualche nostalgia per il clima di cooperazione che nel 2002 ha consentito, a Napoli con Giuseppe Tesauro presidente dell’Autorità italiana, la creazione dell’ICN e persino di discutere – ancora non pienamente consapevoli di tutte le implicazioni della globalizzazione – dell’utopia di un’autorità antitrust globale. Altri tempi si potrebbe dire. Ma, l’incapacità di globalizzare le istituzioni ha reso assai più difficile il governo dei processi di globalizzazione.