L’antitrust e “le cose della vita”
In un bel libro (recensito da Boitani sul Menabò), Claudio De Vincenti auspica un “governo che ami il mercato”. Accontentandosi di molto meno si può auspicare che l’opinione pubblica di un Paese refrattario alla cultura del mercato e intriso di corporativismo prenda a guardare con attenzione e interesse alla concorrenza. E per spingerla in quella direzione un passo importante è cercare di convincerla, trovando i giusti argomenti, che la disciplina antitrust è utile.
Più direttamente, coloro che ritengono che la concorrenza possa essere uno strumento potente per migliorare le condizioni di vita della collettività e che la disciplina antitrust sia necessaria per garantire che il processo competitivo si svolga “correttamente”, non possono non interrogarsi su come rispondere quando un “non addetto ai lavori” (un cittadino comune) candidamente chiede: “A che serve l’antitrust? Se serve…”
Nel rispondere occorre tenersi ben lontani dagli eccessi cui può destinarci la passione o l’amore cieco. L’amore, se vogliamo menzionarlo, al quale qui si può fare riferimento è decisamente distante da quello che 55 anni fa ci proponeva la frase clou di Love Story e che da sola valeva il prezzo del biglietto: “amare significa non dover mai dire mi dispiace”. L’amore (o anche la simpatia) per la concorrenza, per essere utile, non può che essere, privo di idealizzazioni o demonizzazioni, qualcosa di imperfetto, umano, un sentimento compatibile con il dispiacersi e chiedere scusa (sentimenti piuttosto nobili, quando autentici). Amare (?), voler bene, nonostante…
Nell’ultimo decennio del Novecento, con la politica partitica messa in discussione da “mani pulite” e con le autorità indipendenti di gran moda (impensabile allora che un membro di un’autorità di vigilanza indipendente andasse a far visita a una sede di partito!!), nel nostro Paese si è pensato che fosse sufficiente comunicare i benefici della concorrenza attraverso le decisioni dell’Autorità (con l’enforcement, si direbbe oggi…). Lo sforzo di convincimento del legislatore e la sensibilizzazione dell’opinione pubblica attraverso quella che si chiama attività di advocacy (i.e. i poteri di segnalazione previsti dalla legge per suggerire soluzioni legislative meno inutilmente restrittive della concorrenza, prediche più o meno inutili), che pure in alcune fasi sono stati fatti, veniva considerato come tempo perso o, peggio, come alternativa timida agli interventi di enforcement che avrebbero “disturbato” le imprese dotate di potere di mercato e, non solo di mercato…
D’altro canto, erano anni in cui l’attività delle autorità antitrust aveva una qualche attenzione sui mezzi di informazione e la speranza che le istruttorie potessero essere un efficace strumento di promozione della cultura della concorrenza non era del tutto infondata. Non infondata ma forse troppo ottimista.
Di fronte alla scarsa popolarità della disciplina antitrust e alla fragilità della cultura della concorrenza – non solo in Italia – si sono privilegiate risposte semplici, dogmatiche, limitandosi a enfatizzare i benefici delle liberalizzazioni (nel nostro Paese più che mai necessarie) e le indubbie opportunità che offriva il processo di globalizzazione. Dimenticando, però, che i benefici e i costi non si sarebbero distribuiti equamente. La stessa cultura progressista, per oltre un ventennio, ha subito acriticamente il fascino del liberismo, ignorando che, quanto meno nel breve periodo, l’introduzione della concorrenza produce perdenti, a volte incolpevoli lavoratori o piccole imprese lontane dalla dimensione minima efficiente, a volte corporazioni non sempre simpaticissime. Sottostimando, soprattutto, che i perdenti vanno, a torto o a ragione, a ingrossare le fila di coloro che sono, a dir poco, scettici delle virtù della concorrenza e dell’utilità della disciplina antitrust e che, non di rado, coniugano lo scetticismo verso le riforme concorrenziali con l’attrazione fatale per il populismo e/o per l’astensionismo. Si è voluto bene alla concorrenza ma si è dimenticato di fronteggiare i costi della transizione o almeno di chiedere scusa.
A fronte di ciò, negli anni più recenti, nella cosiddetta comunità antitrust (qualcuno la definisce, maliziosamente, la “bolla”) si possono rintracciare almeno tre diverse tentazioni che non contribuiscono alla popolarità della disciplina della concorrenza. E, non di rado, come ci insegna la cultura cattolica, dietro ogni tentazione si nasconde un possibile “peccato”.
La prima tentazione è quella della reazione autoreferenziale e tecnocratica.Di fronte allo scetticismo e ai profondi mutamenti in atto (le stracitate “sfide del digitale”), si reagisce con un assordante “business as usual”, “le autorità applicano le norme”, l’obiettivo resta quello del consumer welfare (spesso schiacciato sull’efficienza statica, l’efficienza “di ieri”), “non è affar nostro preoccuparsi di eventuali perdenti”…Una tentazione apparentemente frutto di purezza e ortodossia, talmente pura da lasciare il campo, senza opporre resistenza alcuna, alla regolazione dei mercati digitali (il Digital Markets Act), con l’auspicio che regolazione e antitrust possano beneficiare della loro potenziale complementarietà e che gli interventi ex-ante (tipici della regolazione), ancor più di quelli ex-post (propri dell’enforcement antitrust), possano limitare lo sfruttamento abusivo del potere delle Big Tech.
La seconda tentazione, sperimentata soprattutto oltre Oceano durante l’amministrazione Biden, è quella populista, cosiddetta “neo-brandeisiana”. Louis Brandeis era un giudice della Corte Suprema all’inizio del Novecento, conosciuto come “l’avvocato del popolo” per la sua sensibilità verso i temi sociali, ed erano gli anni in cui il diritto antitrust compiva i suoi primi passi. Riscoprendo l’antitrust delle origini, si è pensato innanzitutto che la disciplina della concorrenza potesse estendere la sua missione: non solo protezione del processo competitivo ma anche una serie di obiettivi di interesse generale – per carità più che nobili – come la lotta alle disuguaglianze, la transizione ecologica, la tutela dei lavoratori, obiettivi che possono essere al più consapevoli effetti collaterali dell’applicazione delle norme a tutela della concorrenza. In altre parole, la tentazione – citando Jean Tirole – di utilizzare la disciplina antitrust come una sorta di coltellino svizzero multifunzione. Con la prepotente ascesa delle grandi piattaforme digitali si è riscoperto l’antitrust come strumento utile per limitare non soltanto il potere di mercato ma anche quello economico e politico. La disciplina antitrust viene, dunque, intesa come strumento di democrazia economica, con il quale si pretende di affrontare questioni di pluralismo, di privacy, di tutela delle piccole imprese e questioni che oggi si definiscono “geopolitiche”. Si pensi solo all’intreccio tra le sanzioni alle Big Tech, da un lato, e la tassazione degli extraprofitti e persino i dazi, dall’altro. Non che questi problemi non esistano e non siano più che seri ma pensare di poterli affrontare con la scatola degli attrezzi dell’antitrust e con le lenti neo-brandeisiane prive di una base economica solida (si veda al riguardo un mio precedente articolo sul Menabò) appare quanto meno velleitario. E così è stato…Certo i giudici nominati da Trump e il suo secondo mandato, non hanno aiutato, per usare un eufemismo.
Infine, c’è una terza tentazione alla quale sono esposte soprattutto, ma non solo, le autorità antitrust nazionali: l’attrazione (ir)resistibile per i temi di moda, presunti veicoli per conquistare visibilità.Di qui la crescente attenzione, anche da parte delle autorità nazionali, per questioni che riguardano le grandi piattaforme digitali e l’Intelligenza Artificiale. Questioni spesso di portata sovranazionale, rispetto alle quali la disciplina antitrust e la regolazione possono senz’altro dare il loro contributo ma nella consapevolezza che, tanto più ci si sposta dal potere di mercato verso il potere economico o il potere tout court, è la politica (che non è una brutta parola…) che deve fare la parte del leone. Il confronto con le Big Tech deve sicuramente continuare a contare sulla disciplina della concorrenza – in particolare su un più severo controllo delle concentrazioni e su aspetti di corporate governance che, anche in assenza di acquisizioni, sterilizzano la pressione concorrenziale esercitabile dalle imprese più piccole e innovative. Il contributo può essere più efficace quando è maggiore la consapevolezza che la complementarità/l’intreccio/la tensione con altre politiche pubbliche (come si usa dire, market friendly) e la regolazione è fondamentale.
Soprattutto, la ricerca di visibilità – di per sé non criticabile e potenzialmente utile ma spesso circoscritta alla sola comunità antitrust o a stretti ambiti accademici – non dovrebbe togliere spazio agli interventi che impattano sulla vita di tutti i giorni. Sarebbe paradossale che dal discutibile Consumer Welfare Standard (totem dell’ortodossia antitrust) si approdasse ad un ancor più discutibile Conference Welfare Standard!
Se l’attenzione si spostasse dai temi più cool alle “cose della vita”, forse la popolarità della concorrenza potrebbe beneficiarne, forse sarebbe più agevole rispondere all’urticante domanda “a che serve l’antitrust?”.
Il costo dell’energia, i servizi di mobilità, il trasporto locale, i trasporti in genere, i supermercati, i prodotti alimentari, la raccolta dei rifiuti, i servizi professionali, i servizi di intermediazione immobiliare …magari possono sembrare temi meno sexy dei pregi e dei difetti degli ecosistemi e delle malefatte delle Big Tech (che ci sono, eccome) o dei rischi connessi alla concentrazione in poche mani degli input essenziali per lo sviluppo dell’Intelligenza Artificiale, ma è ragionevole pensare che gli eventuali benefici derivanti dall’introduzione di un di più di concorrenza nei mercati che impattano in modo rilevante sulla vita di tutti i giorni siano più percepibili e più facilmente comunicabili.
Si potrebbe obiettare che si tratta di un’ulteriore versione della tentazione populista.
Non è così. Una maggiore attenzione alle “cose della vita” non è affatto alternativa alle preoccupazioni per lo straripante potere delle Big Tech (da contrastare anche e soprattutto con strumenti diversi dalla disciplina antitrust), per gli ostacoli all’accesso alle opportunità offerte dall’Intelligenza Artificiale ovvero per il contributo che la politica della concorrenza può (e deve) dare alla competitività e alla politica industriale. Un maggior focus sulle “cose della vita” è soprattutto un modo per uscire dalla “bolla dell’antitrust”, dall’autoreferenzialità e di veicolare ai cittadini/consumatori le concrete virtù della concorrenza che, non dimentichiamo, nel breve termine si coniugano spesso con costi sopportati non solo dai percettori di rendite. È un modo di ricordare che l’antitrust può servire e che, posto che l’amore andrebbe riservato ad altro, conviene almeno voler bene alla concorrenza, nonostante…