Finanza

La speranza non è una strategia: leggere Mario Draghi oggi. Luci e ombre di un leader atipico

Cosa può accadere quando una giovane giornalista di formazione umanistica incontra una figura simbolo della finanza europea? Può succedere che la giovane giornalista venga presa dall’ambizioso desiderio di riuscire a scrivere un libro che tracci un ritratto inedito, al tempo stesso affilato e intimo, di quella figura simbolo della finanza europea, lontano anni luce tanto dall’agiografia quanto dalla caricatura e che sia ricco di rimandi al mondo della letteratura, dell’arte, del cinema. Mario Draghi è stato raccontato quasi sempre da lontano. Con rispetto, certo. Con ammirazione, spesso. Con accortezza, più di quanto si dica. Forse perché, al di là dei titoli e delle cariche, resta una figura difficile da decifrare fino in fondo: riservato, controllato, con quella faccia da giocatore di poker che non tradisce mai un’emozione e che sembra fatta appositamente per le stanze del potere dove, secondo i più, si decide tutto in silenzio. Capace di dire molto senza mai scoprire del tutto le carte.

Mi incuriosivano, o forse intrigavano è il verbo più giusto, frasi come «Non hanno capito niente, in dieci minuti di colloquio Draghi può sfilarti i calzini senza toglierti le scarpe chiunque sia il suo interlocutore» o «C’è un detto su di lui: non sai mai da che parte sta, tranne che sarà la sua parte a spuntarla». Dietro quell’immagine di compostezza si nasconde una storia però complessa. Ci sono scelte di Mario Draghi che hanno cambiato il corso della politica economica europea, momenti di consenso a dir poco plebiscitario e lampi di durissima contestazione. Non mancano le zone d’ombra, alimentate più spesso da suggestioni, rumor e semplificazioni, che da prove concrete.

E c’è un tratto che spiega molto di lui: la capacità di cambiare idea quando cambiano i fatti. Non a caso una delle sue massime preferite è attribuita a John Maynard Keynes: «Quando i fatti cambiano, io cambio opinione. E lei, Sir?». È da questa premessa che prende avvio il mio libro, Mario Draghi. La speranza non è una strategia, appena pubblicato da Santelli Editore. Non una biografia ufficiale, ma un viaggio narrativo e documentato attraverso le tappe fondamentali della vita dell’ex presidente del consiglio italiano. Un tentativo di mostrare l’uomo oltre il burocrate, con le sue decisioni, i dubbi, i giudizi contrastanti che hanno accompagnato il suo cammino pubblico.

Le origini e la formazione accademica. La prima parte del volume segue gli anni della formazione. Mario Draghi si laurea alla Sapienza di Roma nel 1970 sotto la guida di Federico Caffè. Nella tesi, dal titolo Integrazione economica e variazione dei tassi di cambio, prende una posizione che oggi appare quasi paradossale: di contrarietà all’adozione della moneta unica. Allora il giovane economista – e lo ha ricordato lui stesso nel suo intervento al recente Meeting di Comunione e Liberazione a Rimini – bocciava il Piano Werner, un progetto presentato da una commissione di esperti, probabilmente troppo in anticipo sui tempi.

Tra i fattori che hanno influito sulla sua mancata realizzazione il crollo del sistema di Bretton Woods, come pure la crisi del petrolio greggio. Sarà la vita a portare Mario Draghi, decenni dopo, a diventare il custode per eccellenza dell’euro. Gli anni di insegnamento universitario, in città come Trento e Firenze, lo vedono professore severo, esigente, ma capace di affascinare e introdurre gli studenti alle correnti internazionali del pensiero economico. La parentesi al MIT di Boston, a stretto contatto con giganti come Franco Modigliani e Robert Solow, lo apre ad una prospettiva globale. È un Draghi diverso da quello che l’opinione pubblica ha conosciuto: giovane docente curioso, innovativo, aperto al dialogo.

Il Tesoro e il caso Britannia. La svolta arriva nel 1991, quando il governatore Guido Carli lo chiama al Ministero del Tesoro. È l’inizio di un decennio decisivo per la politica economica italiana. Draghi guida le privatizzazioni delle grandi aziende pubbliche, scelte necessarie secondo i sostenitori per modernizzare il Paese, errori imperdonabili secondo i critici che parlano di “svendita”. Nel 1992, sul panfilo Britannia, di proprietà della regina Elisabetta, l’economista tiene un discorso tecnico e prudente. Ma quell’episodio diventa il simbolo, per i detrattori, di una resa ai poteri finanziari internazionali. Una leggenda politica che sopravvive ancora oggi e nel libro si ricostruisce non solo quell’episodio, ma anche le tensioni di un Paese che entrava nel vortice di Tangentopoli e vedeva in Draghi una figura insieme rassicurante e sospetta. Secondo le stime, la vendita di aziende pubbliche, gestita dal comitato di privatizzazione da lui guidato dal 1993 al 2001, ha portato alle casse dello Stato circa 102 miliardi di euro tra il 1992 e il 2001. In quello stesso periodo il debito pubblico italiano sarebbe diminuito da un massimo del 127 per cento del Pil nel ’94 a 104,7 per cento nel 2001.

L’esperienza in Goldman Sachs. Nel 2002 dopo aver concluso la sua avventura al Ministero del Tesoro, Draghi torna per un breve periodo a insegnare ad Harvard, prima di iniziare a collaborare con la Goldman Sachs. La decisione alimenta un pregiudizio che lo accompagnerà a lungo: essere un uomo freddo e cinico legato agli interessi delle grandi banche internazionali. Francesco Cossiga non esitò a definirlo “vile affarista”, con un attacco che resta negli annali per la durezza. Nel libro ricostruisco come, in realtà, le operazioni più controverse della banca precedessero il suo ingresso. E come la sua permanenza sia durata solo tre anni, prima del ritorno in Italia. Eppure quella parentesi basta a nutrire una diffidenza che riemergerà ogni volta che Draghi salirà di grado, fino a Palazzo Chigi. È uno dei tanti nodi etici che il volume affronta: come pesare l’esperienza in un colosso finanziario globale rispetto al successivo ruolo di garante dell’interesse pubblico.

L’arrivo in Banca di Italia. Nel 2005, dopo il caso Fazio, viene nominato governatore della Banca d’Italia. È un’istituzione ferita, bisognosa di riconquistare fiducia. Quando Draghi arriva a Palazzo Koch lo trova assai diverso dai tempi del Tesoro. Si arma di pazienza e di esperienza per restituirgli autorevolezza, rendendolo migliore di quanto già non fosse agli albori. Il neo governatore si muove con risolutezza: rafforza i controlli, impone regole più severe sulla vigilanza bancaria, restituisce sobrietà a un’istituzione simbolo. È forse la fase meno controversa della sua carriera, ma non per questo priva di tensioni interne: molti mal sopportano la sua rigidità. Ai dipendenti di Bankitalia Draghi fa recapitare una lettera in cui invita a ritrovare l’orgoglio perduto negli ultimi mesi dominati dagli attacchi scottanti che avevano travolto l’Istituto. La Banca d’Italia «ha le risorse per affermare la propria autorevolezza nella formazione della politica monetaria europea e per meritare quel prestigio internazionale che la sua storia le ascrive». In quella stessa missiva Draghi raccomanda ai suoi collaboratori di «avere il coraggio di cambiare». Ecco, «coraggio» è una delle parole più ricorrenti nel libro. Lo stesso economista nel corso di un’intervista ha confidato che quest’ultimo ha sempre guidato le sue azioni: «A cavallo tra le due guerre, in Germania, mio padre vide un’iscrizione su un monumento. C’era scritto: se hai perso il denaro non hai perso niente, perché con un buon affare lo puoi recuperare; se hai perso l’onore, hai perso molto, ma con un atto eroico lo potrai riavere; ma se hai perso il coraggio, hai perso tutto».

La BCE e il “Whatever it takes”. Il 2011 lo porta alla guida della Banca centrale europea. È il momento più drammatico per l’eurozona: la crisi greca, lo spread italiano alle stelle, i mercati che scommettono contro la moneta unica. Il 26 luglio 2012, a Londra, pronuncia parole che diventeranno storia: “Whatever it takes”. Anche in questo caso non mancano critiche: in Germania, la Bundesbank accusa Draghi di spingersi oltre il mandato; nei Paesi sotto programma di salvataggio, l’austerità imposta in cambio della stabilità monetaria lascia cicatrici profonde.

Palazzo Chigi: tra unità e fratture. Il 13 febbraio del 2021, in piena pandemia, il presidente Mattarella lo chiama a guidare un governo di unità nazionale. Draghi dà una forte spinta al piano vaccinale, introducendo Green Pass e Super Green Pass, misure che accelerano la ripartenza del Paese, ma dividono l’opinione pubblica. Consegna inoltre all’Europa un PNRR credibile, ottenendo fondi fondamentali per il post Covid. Sul piano internazionale il presidente del consiglio prende posizione netta contro l’invasione russa dell’Ucraina, schierandosi con decisione al fianco di Europa e Stati Uniti. Ancora una volta, il suo stile è quello del tecnico prestato alla politica: sobrio, diretto, privo di concessioni alla propaganda. Ma anche qui le critiche non tardano ad arrivare: c’è chi lo accusa di eccessiva fedeltà a Bruxelles, chi di fare gli interessi dell’America, chi di aver ignorato le fratture sociali interne.

Tecnica, politica, responsabilità. Il filo conduttore dell’opera è proprio questo: Draghi come figura che mette continuamente in tensione il confine fra tecnica ed etica, economia e politica. È l’uomo che salva l’euro, ma che lascia aperto il dibattito sui costi dell’austerità. È il presidente del consiglio che restituisce credibilità internazionale all’Italia, ma che spacca l’opinione pubblica sul Green Pass. È il tecnocrate che non cerca il consenso, ma che finisce al centro di ogni contesa. Il libro non celebra, né demolisce in alcun modo Draghi. Si cerca piuttosto di mostrare la complessità di un uomo che, con le sue scelte, ha inciso profondamente sul destino di un Paese e di un continente. Una figura centrale nella storia recente, forse l’ultimo grande interprete di una stagione europea che rischia sul serio di spegnersi.

Il rapporto sulla competitività dell’Ue. Oggi, non a caso, Mario Draghi è ancora al centro della scena europea. La presidente della Commissione Ursula von der Leyen gli ha affidato la redazione di un rapporto sulla competitività dell’Unione, un documento che punta ad indicare le riforme necessarie per affrontare colossi come Stati Uniti e Cina. Anche qui riemerge il doppio registro che attraversa tutta la sua biografia: da un lato il tecnico che si muove con autorevolezza tra numeri e strategie industriali, dall’altro l’outsider che deve misurarsi con scelte cariche di conseguenze politiche e sociali. È il segno che Draghi resta, a distanza di anni, una figura chiamata a coniugare pragmatismo e visione, senza mai concedere nulla alla retorica del consenso immediato. Il rapporto Draghi individua tre priorità decisive per il futuro dell’Ue: innovazione tecnologica, decarbonizzazione e sicurezza economica. Il sentiero indicato è un percorso che «infrangerà tabù di lunga data. Ma il resto del mondo ha già infranto i propri. Per la sopravvivenza dell’Europa, dobbiamo fare ciò che non è mai stato fatto prima e rifiutarci di lasciarci frenare da limiti autoimposti», ha dichiarato l’ex presidente della Bce a Bruxelles lo scorso 16 settembre. In quella stessa occasione Draghi ha sottolineato come «l’Europa si trovi oggi in una situazione più difficile», con un modello di crescita che «si sta dissolvendo» e «vulnerabilità in aumento». La sua conclusione è stata netta: «L’inazione minaccia non solo la nostra competitività, ma anche la nostra stessa sovranità». E la visione di Draghi convince per chiarezza, ma si arena tra vincoli finanziari, lentezze burocratiche e diffidenze nazionali. Alle ambizioni del rapporto fanno da contrappeso i nodi irrisolti di debito, governance e tempi d’azione.

Un invito a guardare oltre i soliti cliché. Perché un libro su Draghi, ora? Perché ripercorrere la sua carriera significa raccontare l’Italia e l’Europa degli ultimi cinquant’anni: i successi e i fallimenti, le speranze e le paure, la fiducia e la diffidenza verso il potere. Mario Draghi. La speranza non è una strategia è, in fondo, un invito a guardare oltre i cliché. A non fermarsi all’immagine del “salvatore della patria” o del “banchiere dei poteri forti”, ma ad interrogarsi su come un leader così atipico sia diventato il punto di riferimento e di divisione della nostra vita pubblica. E, soprattutto, è un tentativo di porre al centro una domanda che riguarda tutti noi: in un’epoca di crisi permanente, cosa chiediamo davvero a chi ricopre incarichi istituzionali tanto prestigiosi? Forse la risposta non è unica. Probabilmente, come suggeriva Keynes, dipende dai fatti. Ma siamo davvero pronti a cambiare opinione quando i fatti cambiano?