Finanza

La filantropia riduce le disuguaglianze?

La filantropia è largamente percepita come un’attività sostenuta e finanziata da chi ha di più, molto di più, a favore di chi ha di meno. In breve come una modalità ‘privata’ di redistribuzione e di riduzione delle disuguaglianze. Ma vi sono svariate ragioni per mettere in discussione questo assunto e per indagare più a fondo, e in un contesto più ampio, i rapporti tra filantropia e disuguaglianza della situazione economica o, meglio, del benessere materiale.

Il primo modo per farlo è considerare che spesso la filantropia si concretizza in interventi a favore di beni pubblici o beni comuni di cui possono beneficiare tutti, anche i meno poveri, visto che una caratteristica di tali beni è l’impossibilità di escludere chiunque dal loro godimento (inclusi i ricchi filantropi). La conseguenza è che se il benessere di tutti può crescere le disuguaglianze di benessere non necessariamente si riducono e potrebbero anche ampliarsi nei casi in cui a beneficiare maggiormente di quei beni sono coloro che già godevano di un benessere più elevato.

Dasgupta e Kanbur, in un articolo del 2011, considerano la cattiva allocazione delle scelte dei donatori come parte di questo problema di disuguaglianzz. I due economisti dimostrano infatti che le donazioni dirette a beni pubblici — che per definizione sono non-escludibili — invece di ridurre le disuguaglianze di reddito, possono in realtà aumentare il “reddito reale” dei filantropi ricchi, i quali non possono essere esclusi dal godimento di tali beni, aggravando quindi la disuguaglianza assoluta. Per reddito reale si intende il reddito monetario più i benefici derivanti dalla fruizione del bene pubblico. I risultati della loro dimostrazione suggeriscono dunque che per ottenere un obiettivo di riduzione delle disuguaglianze, la redistribuzione tramite tassazione e quella tramite filantropia devono essere complementari, per compensare l’aumento del reddito reale attraverso una riduzione delle detrazioni fiscali per i filantropi più ricchi. 

Questa argomentazione si collega al secondo modo con il quale si può guardare alla filantropia in relazione alle disuguaglianze, ovvero alla possibilità che la filantropia indebolisca l’azione redistributiva dello stato. Questo può accadere considerando che i filantropi godono spesso di una detassazione che alleggerisce il loro carico fiscale e, soprattutto, porta a ridurre le risorse pubbliche disponibili per la redistribuzione. L’esito finale potrebbe facilmente essere diverso dalla riduzione delle disuguaglianze. Questi argomenti fortemente critici nei confronti della filantropia, considerata non solo inefficace nel ridurre le disuguaglianze, ma complice nel consolidarle e perpetuarle, sono ampiamente sviluppati da Robert Reich nel suo volume del 2018 Just Giving. Why Philanthropy Is Failing Democracy and How It Can Do Better (Princeton University Press).

Ulteriori e significative riflessioni su questo complesso tema le fornisce il report preparato dalle istituzioni filantropiche europee affiliate a Philea in occasione del recente forum annuale:  (Philea, 2025). Il report è focalizzato sul modo in cui tali organizzazioni sono organizzate e sembra ispirato dall’obiettivo di rispondere a critiche come quella di Reich, dirette in primis ai cosiddetti filantro-capitalisti statunitensi, la cui azioni filantropica a suo avviso, non si può giustificare perché aumenta le diseguaglianze a causa di un sistema di regolamentazione non orientato alla redistribuzione.

Il report di Philea affronta alcune di queste critiche con riflessioni rilevanti sul tema delle disuguaglianze. Ad esempio, quella dell’origine dei patrimoni che permettono attività filantropiche e della pratica connessa di ambire alla massima crescita di tali patrimoni. Oppure quella della rappresentanza negli organi decisionali di tali istituzioni di tutte le componenti sociali (e, in misura meno squilibrata, delle donne) e soprattutto di quelle che meglio possono rappresentare e difendere gli interessi dei più deboli a cui la filantropia dovrebbe rivolgersi.

Nel report le istituzioni filantropiche europee non si limitano a riconoscere la necessità di prestare maggiore attenzione alle disuguaglianze, anche all’interno delle proprie strutture organizzative e dei sistemi attuali di accountability; infatti, si arriva a proporre un cambio di paradigma, avendo chiaro che il nodo irrisolto sono i rapporti tra concentrazione di potere filantropico e obiettivi di giustizia sociale. Pertanto non basta limitarsi a correggere le distorsioni organizzative e di regolamentazione, occorre ripensare le strutture stesse del potere nelle pratiche filantropiche attraverso meccanismi di co-progettazione e condivisione decisionale con le comunità beneficiarie.

Una delle proposte più rilevanti del report è l’invito ad adottare un approccio relazionale e fondato sulla fiducia nella pratica filantropica. Questo modello, già proposto negli Stati Uniti, ad esempio da Darren Walker, CEO della Ford Foundation, nel suo From Generosity to Justice. A New Gospel of Wealth,(The Ford Foundation, 2023) promuove relazioni orizzontali e durature tra enti erogatori, beneficiari e comunità, valorizzando ascolto e corresponsabilità. In contrasto con approcci tradizionali di tipo top-down, l’adozione di processi partecipativi mira a trasformare il rapporto tra chi dona e chi riceve, favorendo modelli più inclusivi di allocazione delle risorse.

Tuttavia, questa transizione si scontra con contraddizioni strutturali insite nella filantropia contemporanea, ampiamente analizzate da Reich. Alle critiche già menzionate, se ne aggiungono altre sulla la mancanza di trasparenza nella governance delle fondazioni, la possibilità per queste di durare in perpetuo senza vincoli democratici. Questi meccanismi contribuiscono a rafforzare concentrazioni di potere privato, potenzialmente disallineate dai bisogni collettivi.

Su un piano più radicale, Chiara Cordelli (The Privatized State, Princeton University Press, 2020) sostiene che la filantropia privata, pur essendo spesso animata da intenzioni morali, costituisce una forma di potere politico arbitrario sui beni pubblici, esercitata da individui che non sono stati eletti. Tale configurazione rende intrinsecamente ingiusta la delega di compiti redistributivi alla filantropia privata, perché l’esito è usurpare prerogative proprie dello Stato democratico. Di conseguenza, secondo Cordelli, non è sufficiente una riforma interna del settore: è necessario un ripensamento dell’intero quadro fiscale e istituzionale che oggi consente alla filantropia di sostituirsi alle politiche pubbliche.

In questo contesto, le esperienze di cui dà conto il report di Philea evidenziano tentativi concreti di superare queste criticità attraverso pratiche di “co-progettazione” e filantropia comunitaria. Ad esempio, la fondazione portoghese Calouste Gulbenkian ha investito in un percorso collaborativo con le comunità locali per rispondere a bisogni sociali complessi tramite progettazione partecipata e ascolto continuo. In Germania, la Stiftung Bürger für Bürger promuove infrastrutture locali per la cittadinanza attiva e il rafforzamento delle reti civiche, sostenendo modelli di sviluppo comunitario radicati nei territori così come la King Baudouin Foundation in Belgio. Sono queste esperienze che promuovono modelli partecipativi e inclusivi, dove le comunità locali co-decidono le priorità d’intervento. Come sostengono P. Kraeger et al. (“Participatory community philanthropy: a pathwayfor reducing social (in)equalities” in Social (In)equality, Community Well-being and Quality of Life, Edward Elgar, 2024), questa “relational infrastructure” è una condizione pre-politica per una redistribuzione più equa, perché mette in discussione la legittimità del potere decisionale concentrato.

Questi approcci, ispirati a una logica di “empowerment” collettivo, rappresentano tentativi virtuosi di redistribuire potere decisionale e risorse, in linea con i principi espressi da Philea.

Tali pratiche, seppur promettenti, non risolvono da sole le disuguaglianze strutturali generate dal sistema fiscale e dai meccanismi di incentivazione. Alcuni studi, come quello di S.W. Sokolowski (“Effects of government support on nonprofit institutions from aggregate private philanthropy: Evidence from 40 countries” VOLUNTAS: International Journal of Voluntary and Nonprofit Organizations, 2013). mostrano che il finanziamento pubblico non è necessariamente in competizione con la filantropia privata. Al contrario, in 40 paesi analizzati, il sostegno governativo si è rivelato un fattore “abilitante”, capace di generare fiducia e attrarre ulteriori risorse filantropiche, riducendo asimmetrie informative e costi di transazione.

Questo dato sfida la narrazione neoliberale secondo cui l’intervento statale avrebbe un effetto di crowding out rispetto alla filantropia privata, confermando che la collaborazione pubblico-privato può avere un effetto moltiplicatore. Tuttavia, come segnala anche J. Andreoni (“Impure altruism and donations to public goods: A theory of warm-glow giving”, The Economic Journal, 1990), è necessario calibrare gli incentivi per evitare che la generosità filantropica venga soppiantata facendo eccessivo affidamento sullo Stato.

In conclusione, le strategie relazionali e comunitarie delineate da Philea rappresentano un passo importante verso una filantropia più equa e orientata alla giustizia. Tuttavia, esse non possono sostituirsi a una riforma più ampia che includa una revisione delle politiche fiscali e dei sistemi di governance. Resta dunque aperta una domanda cruciale: la filantropia può davvero riformarsi dall’interno per ridurre disuguaglianze inaccettabili, o è necessario un intervento regolatorio esterno per riequilibrarne gli effetti sistemici e renderla uno strumento più efficace e democratico nella lotta contro le disuguaglianze?

Considerando in particolare la situazione negli Stati Uniti, interventi di policy mirati potrebbero contribuire a ridurre alcuni degli effetti più distorsivi dell’attuale sistema filantropico istituzionale. Tra questi, ad esempio, elevare il payout annuale richiesto alle charities -al momento fermo al 5% del valore del patrimonio – oppure delimitare le tipologie di attività finanziabili, ad ora estremamente variegate e di scarso impatto sociale, per allinearle con le priorità definite dalle politiche pubbliche, in una logica di cofinanziamento del welfare. Questo potrebbe mitigare il rischio che la filantropia istituzionale possa contribuire ad aumentare invece che mitigare le disuguaglianze, ma l’impatto non potrebbe comunque essere tale da incidere in maniera radicale nel ridurre quei divari che solo un sistema più efficace di tassazione e redistribuzione può ottenere.