Finanza

Inflazione tra vincoli d’offerta e conflitti distributivi: l’analisi di Guido Lorenzoni alle Lezioni Caffè

Il 3 e il 4 dicembre del 2025, come da molti anni a questa parte, presso la Facoltà di Economia della Sapienza di Roma, si sono tenute le lezioni intitolate a Federico Caffè; un’iniziativa degli allievi di Caffè intesa a onorare la memoria del loro maestro, anche con il contributo della Banca d’Italia, dove Caffè ha ricoperto per anni importanti incarichi. 

A tenere le lezioni Caffè 2025 è stato Guido Lorenzoni, già studente della Sapienza, e oggi Professore di Economia alla Booth School of Business dell’Università di Chicago. Lorenzoni, macroeconomisti tra i più noti a livello internazionale, esperto di teoria del ciclo economico, finanza internazionale, politica monetaria e fiscale e crisi finanziarie, ha scelto come tema delle due lezioni l’analisi dell’inflazione che tra il 2021 e il 2022 ha colpito molti paesi nel mondo, dopo i mesi del lock-down e della pandemia.

Nel trattare questo argomento, traendo spunto da importanti recenti studi sull’argomento condotti insieme a Veronica Guerrieri, Ludwig Straub e Iván Werning (per i più recenti si veda qui e qui) Lorenzoni ha osservato come il rialzo dei prezzi, tra il 2021 e il 2022, sia iniziato nel mercato dei beni per poi estendersi al settore terziario e ai salari. Nella ricostruzione di questo processo, Lorenzoni si è soffermato sue tre elementi: il ruolo dei vincoli settoriali dal lato dell’offerta (colli di bottiglia), il ruolo del conflitto distributivo tra imprese e lavoratori nel propagare il rialzo dei prezzi, il ruolo dei governi e delle banche centrali, in particolare negli Stati Uniti, nel sostenere con forza la ripresa economica dopo il Covid anche a costo di un surriscaldamento dell’economia (hot economy).

Nel descrivere l’intreccio tra questi fattori, Lorenzoni si è concentrato sul mercato del lavoro, considerato nella prospettiva teorica neo-keynesiana, prevalente nell’analisi macroeconomica contemporanea d’impostazione ortodossa (cfr. O. Blanchard e J. Galì, Labor Markets and Monetary Policy: A New Keynesian Model with Unemployment. American Economic Journal, 2010). Secondo questa prospettiva, le imprese fissano i prezzi con l’obiettivo di proteggere i propri margini di profitto, tenendo conto delle condizioni di domanda e di offerta sul mercato dei beni e della produttività del lavoro. Dall’altro lato del mercato, i lavoratori (e i sindacati che ne tutelano gli interessi) fissano i salari monetari con l’obiettivo di tutelarne il potere d’acquisto. In quest’ottica il mercato del lavoro è il luogo privilegiato dal quale osservare l’intreccio fra rialzo dei prezzi (provocato dalla ripresa della domanda di beni dopo i mesi della pandemia, a fronte di una capacità produttiva che in molti settori si era ridotta) e il rialzo successivo dei salari (motivato dall’aspirazione a recuperare almeno in parte il potere d’acquisto perduto)

Rappresentando i prezzi, da un lato, e i salari, dall’altro, come due giocatori impegnati nel tiro alla corda, Lorenzoni ha sostenuto che l’inflazione del 2021-2022 è stata la conseguenza di un conflitto di strategie tra imprese dotate di potere di mercato e lavoratori sindacalizzati. Ad aggravare questo conflitto, e le conseguenze inflazionistiche che ne sono derivate, sono stati i vincoli settoriali dal lato dell’offerta. Lorenzoni si è soffermato su questo aspetto, rievocando l’immagine dei container pieni che si accumulavano nel porto di Los Angeles in attesa di essere smistati. Ritardi nelle consegne, difficoltà di approvvigionamento, problemi di logistica, a fronte di una domanda di beni che si riprendeva rapidamente grazie al sostegno monetario e fiscale, hanno favorito il brusco rialzo dei prezzi dei beni e dell’inflazione; un rialzo aggravato dall’aumento dei prezzi dell’energia, a seguito prima dell’invasione russa dell’Ucraina e poi dai dazi di Trump.

Con l’occupazione in ripresa, tra il 2021 e il 2022, i lavoratori statunitensi, e non solo, hanno iniziato a chiedere aumenti dei salari per recuperare il potere d’acquisto perduto, sapendo che i sostegni governativi sarebbero stati comunque temporanei. Nel descrivere questo meccanismo di recupero, Lorenzoni ha insistito sulle differenze tra l’episodio inflazionistico più recente e le spirali prezzi-salari-prezzi che tanti paesi occidentali hanno sperimentato negli anni settanta. Allora, con sindacati più forti di oggi ed economie nazionali meno integrate dal punto di vista della produzione, fu l’anticipazione del rialzo dei prezzi a spingere verso l’alto le richieste salariali, con conseguente aumento dei costi e dei prezzi (per tutelare i margini di profitto), come premessa di rialzi ulteriori dei salari e dei prezzi.

Tra il 2021 e il 2022, secondo Lorenzoni, le cose sono andate in maniera diversa. Il rialzo dei prezzi e dei salari di quegli anni è stato un episodio una tantum, dettato da circostanze particolari e favorito dalla scelta dei governi e delle banche centrali di spingere sul pedale della ripresa economica dopo i mesi di pandemia, senza preoccuparsi eccessivamente dei rischi di surriscaldamento. Tra i benefici di questa condotta, Lorenzoni si è soffermato sulla rapidità nell’uscita dalla recessione post-pandemica e sulla (modesta) riduzione della disuguaglianza dovuta alla riduzione maggiore nel potere d’acquisto dei redditi più alti rispetto a quelli più bassi (sostenuti temporaneamente, ma in maniera significativa, dai governi di molti paesi). A fronte di questi vantaggi, stanno i problemi che nascono dall’elevata interconnessione dei sistemi produttivi nazionali. Nel mondo globalizzato, quando molti governi adottano simultaneamente e in maniera non coordinata provvedimenti espansivi senza tenere conto delle ripercussioni sugli altri paesi e sulle catene di approvvigionamento globale, il risultato non può essere altro che l’inflazione globale.

Sulla base di questo intreccio, si può ragionevolmente argomentare che il sostegno fornito dall’amministrazione Biden alle famiglie statunitensi avrebbe favorito l’aumento dei prezzi non solo negli USA ma in tutto il resto del mondo, secondo un tipico meccanismo di esternalità negativa, in parte compensato dal successivo rialzo una tantum dei salari monetari. Che l’aumento dei prezzi e dei salari monetari, per quanto forte e protratto nel tempo più del previsto, non abbia innescato il rialzo delle aspettative d’inflazione e condotto a una spirale prezzi-salari è – per Lorenzoni – il risultato benefico dell’azione delle banche centrali indipendenti e del loro impegno a tutelare la stabilità dei prezzi.

Per Lorenzoni, è stata la fiducia nelle banche centrali e nella loro capacità di tenere l’inflazione sotto controllo, ad aver favorito l’ancoraggio delle aspettative d’inflazione ai valori obiettivo (es. il 2% nel caso della Banca Centrale Europea), prevenendo l’innesco di una spirale prezzi-salari-prezzi come negli anni settanta. La stessa fiducia, unita alla progressiva riduzione degli stimoli fiscali e a una stretta monetaria intensa ma di breve durata, avrebbe favorito un rientro relativamente rapido e poco traumatico dell’inflazione (soft landing) dopo il 2022.

I meriti principali della lezione di Lorenzoni, al di là dei rilievi critici che si potrebbero muovere su punti specifici (l’indebolimento dei sindacati e la scomparsa delle clausole di indicizzazione come freni all’aumento  dei salari rispetto a quello dei prezzi al di là dell’azione delle banche centrali; l’aumento strutturale delle disuguaglianze con conseguente ulteriore indebolimento dei lavoratori rispetto alle imprese; la limitata attenzione al ruolo della finanza nella propagazione dei processi inflazionistici) sono due.

Il primo merito, il più importante, sta nella riscoperta di un’antica verità, sepolta da trent’anni di monetarismo. Contro la dottrina di Milton Friedman, l’inflazione persistente non è sempre e comunque un fenomeno monetario e non è causata sempre e comunque da un aumento sconsiderato dell’offerta di moneta giustificato dal desiderio di finanziare spesa pubblica improduttiva. In un’economia di mercato, l’inflazione è sempre il risultato dell’intreccio complesso tra fattori di domanda e di offerta. La moneta (e la politica monetaria e fiscale) agiscono dal lato della domanda con effetti inflazionistici maggiori o minori a seconda dei margini disponibili di capacità produttiva a livello aggregato e settoriale e di come funzionano le istituzioni che regolano i meccanismi di formazione dei salari, dei prezzi e delle aspettative. In questa prospettiva la politica monetaria continua a essere importante ma non è l’unico elemento da considerare per comprendere le cause e i rimedi contro l’instabilità dei prezzi.

Un identico stimolo monetario può avere effetti completamente diversi, in termini di ampiezza, durata e persistenza, a seconda delle caratteristiche del sistema economico all’interno del quale quello stimolo si propaga. Anche per questo è importante che i macroeconomisti tornino a occuparsi della dimensione settoriale dell’economia e del ruolo delle istituzioni, meglio se in una prospettiva storica a comparata. Su questi temi e sulla questione delle cause reali dell’inflazione altri economisti italiani hanno dato importanti contributi recenti, fra cui Francesco Saraceno, e anche il Menabò se n’è occupato in passato.

Contro l’idea che basti la bacchetta magica monetaria a tenere i prezzi sotto controllo, gli studi di Lorenzoni e dei suoi coautori, di Saraceno, di Boitani e Tamborini e tanti altri aprono strade nuove che portano a esplorare il ruolo delle interdipendenze settoriali, dei colli di bottiglia, dei conflitti distributivi, dei margini di profitto e del contagio internazionale nella propagazione degli shock inflazionistici. Nel farlo può essere d’ispirazione il pensiero di economisti co-evi di Friedman e i cui nomi sono oggi meno noti ai più. Nel ricordare le parole del keynesiano James Tobin sulla necessità di tener conto dell’eterogeneità tra i settori economici per comprendere i processi inflazionistici in risposta ai monetaristi, o gli studi di R. Rowthorn (“Conflict, inflation and money”, Cambridge Journal of Economics,1977), di P. Sylos Labini (Prices, Distribution and Growth, Cambridge University Press, 1967), di Franco Modigliani ed Ezio Tarantelli, Lorenzoni invita a rileggere gli studi del passato.

L’analisi contemporanea dell’inflazione ha riportato al centro temi già presenti nelle teorie del conflitto distributivo e dell’inflazione strutturale. I lavori recenti di Lorenzoni , Guerrieri, Weber e Werning, ma anche di Olivier Blanchard mostrano come le dinamiche dei margini di profitto, del potere di mercato e glishock di offerta possano generare inflazione persistente anche in assenza di eccesso di domanda. Questa impostazione riprende le intuizioni di quegli economisti che tra gli anni settanta e ottanta hanno concepito l’inflazione come il risultato di rivendicazioni distributive tra loro incompatibili e di processi di formazione dei prezzi in mercati non concorrenziali. In questa prospettiva, la moneta assume un ruolo accomodante più che causale. L’inflazione emerge dunque come l’esito di squilibri strutturali e distributivi irrisolti, piuttosto che come fenomeno esclusivamente monetario.

In quest’ottica, studiare la storia dell’economia, la storia dei fatti e delle idee, serve per ricordarsi e ricordare agli economisti che non esistono modelli validi universalmente; come sosteneva Keynes, l’economia è la scienza del pensare in termini di modelli insieme all’arte di scegliere i modelli adatti per il momento presente. Anche questo mi pare un merito della lezione di Guido Lorenzoni.