Il rischioso sofisma della giustizia fiscale
Ieri come oggi, il confine tra etica e retorica nella discussione sulla giustizia fiscale è segnato dal rischioso sofisma espresso nel disegno di palingenesi fiscali come soluzione alle ingiustizie sociali. Negli Stati Uniti della seconda metà dell’Ottocento, le rilevanti diseguaglianze nei redditi motivarono il movimento per la tassazione delle grandi ricchezze e condussero all’introduzione dell’imposta progressiva sui redditi. Tale conquista ebbe però anche l’effetto di produrre una sorta di miopia fiscale, destinata ad agire a lungo sulla teoria e la pratica della finanza pubblica, prima negli Stati Uniti poi in Europa (A.K. Mehrotra, Making the modern fiscal state: law, politics and the rise of progressive taxation, Cambridge University Press, 2013).
Questa miopia limita la visione del fenomeno fiscale all’imposta, separando concettualmente il prelievo dai benefici che derivano dal suo impiego. Di conseguenza, essa nega che l’imposta sia il contributo corrisposto allo Stato per la fornitura di beni e servizi pubblici, riconoscendole piuttosto il ruolo di misura etica del debito che ogni cittadino ha verso la comunità, in proporzione alla sua capacità contributiva. Questa interpretazione dell’imposta si è raccordata alla concezione della democrazia di mercato, secondo cui i risultati allocativi del mercato – prima dell’imposizione – sono presuntivamente giusti, perciò la giustizia fiscale può valutarsi indipendentemente dagli obiettivi della spesa pubblica. Così è divenuta dominante la narrativa economica e politica che presenta il mercato come condizione essenziale della democrazia, mentre le imposte necessarie a garantire i diritti sociali vengono presentate come un ostacolo alla prosperità collettiva.
L’esito è osservabile nel graduale e sistematico arretramento dello Stato sociale, apparentemente invertito dagli interventi in risposta alla pandemia, che hanno modificato solo straordinariamente un orientamento che rimane parallelo alla crescita delle disuguaglianze patrimoniali e alla concentrazione del potere economico. (più ottimisti a riguardo sono A. Hemerijck e M. Matsaganis sul Menabò n.216). Ciò ha favorito l’erosione del contratto sociale, evidenziando l’incompatibilità della democrazia di mercato con i principi di cooperazione e reciprocità che dovrebbero sorreggere l’architettura dei diritti e dei doveri in una società democratica.
Su questo terreno le forze politiche di destra hanno rappresentato una reazione politica di segno nichilistico, che ha aggregato malessere popolare e sfiducia nelle istituzioni democratiche incapaci di soddisfare bisogni sociali. Queste forze promuovono un nuovo ordine che stigmatizza gruppi considerati “parassitari” e sostituisce la fornitura pubblica di beni e servizi con trasferimenti monetari. Il risultato è un assetto che privilegia la riduzione delle imposte e la monetizzazione dei diritti sociali, demandando al mercato l’erogazione di servizi non più forniti dal settore pubblico; un assetto pienamente coerente con il sistema della democrazia di mercato, che contrae o limita la spesa per servizi universali, accoglie gli esiti dei processi di concentrazione della ricchezza e consente al potere del mercato di restringere progressivamente lo spazio d’intervento dello Stato.
In alternativa a questo ordine sociale nichilistico, le forze progressiste esprimono proposte che non si discostano dal cammino segnato dalla democrazia di mercato, dissimulandolo nella salvaguardia dei principi di giustizia sociale attraverso le imposte. Sono proposte che accolgono la riduzione del perimetro dello Stato sociale, presentata come inevitabile in ragione dei vincoli di finanza pubblica, e affidano alla tassazione delle grandi ricchezze il compito di realizzare la giustizia sociale.
Lo stesso Thomas Piketty – cui si deve in larga misura la canonizzazione dell’imposta patrimoniale come strumento di contrasto alla concentrazione della ricchezza – interpreta l’espansione dello Stato sociale come un fallimento nella riduzione delle diseguaglianze (T. Piketty, Capital and Ideology, Harvard University Press, 2019). Perciò propone come più efficace una strategia eminentemente fiscale: imposte sui patrimoni, in particolare quelli molto elevati, e sui capitali, accompagnate da trasferimenti monetari e da un reddito di base universalistico. È una tesi discutibile. L’accelerazione dei processi di concentrazione della ricchezza ha infatti coinciso con la contrazione, e non con l’espansione, dello Stato sociale; e ha anche coinciso con la trasformazione del ruolo dello Stato – tipica delle democrazie di mercato – da produttore di beni e servizi pubblici a erogatore di bonus e trasferimenti monetari, nell’illusione che la giustizia sociale sia poi perseguibile con l’imposta patrimoniale. In questa stessa prospettiva si colloca anche la proposta di Gabriel Zucman, che per la Francia prevede un’aliquota del 2 per cento sui patrimoni superiori ai cento milioni di euro, divenuta riferimento nel dibattito europeo sulle grandi ricchezze: come panacea delle ingiustizie distributive generate dal mercato; e persino come mezzo permanente di finanziamento della spesa pubblica, sociale o ambientale, sebbene in nessun caso passato e presente l’imposta patrimoniale, specialmente elusiva e mobilissima sulle ricchezze mobiliari, abbia potuto costituire una fonte ordinaria e stabile di finanziamento.
Affidare la realizzazione della giustizia sociale unicamente all’imposta è un argomento fragile e in larga misura illusorio. In Europa occorre invece ricostruire la fiducia nella capacità delle istituzioni democratiche di garantire i diritti sociali in una democrazia fiscale retta dai principi della reciprocità e della cooperazione. Una democrazia che riconosca il valore del contratto sociale e del patto fiscale che esso implica. Questo patto stabilisce un legame diretto e necessario tra la tassazione e il suo impiego per promuovere una concreta eguaglianza delle opportunità.
Ne consegue che la giustizia nella distribuzione dei benefici generati dai servizi pubblici universali e la giustizia nella distribuzione del carico fiscale dipendono dalla validità del principio di reciprocità espresso nel patto fiscale. (P. Liberati e M. Paradiso, Rebuilding fiscal democracy. How to bring the social contract back into economics, Palgrave-Macmillan, in stampa; P. Liberati e M. Paradiso, Menabò n. 233 ). Tutti possono accedere ai servizi pubblici e tutti devono contribuirvi: il che essenzialmente significa eliminare gradualmente la massa di trattamenti fiscali preferenziali che ovunque hanno svuotato l’imposta progressiva sui redditi, divenuta una imposta sui soli redditi da lavoro e pensioni. Prima di ogni imposta patrimoniale occorre restituire a tassazione ordinaria quei redditi, in cima quelli da capitale, che ne sono stati esclusi.
Si tratta dunque di ricondurre la democrazia dal primato dei diritti del mercato a quello dei diritti sociali, garantendoli attraverso forme ordinarie e stabili di finanziamento. Al contempo, in assenza di un’efficace regolazione dei mercati, la tassazione non è sufficiente a correggere gli squilibri generati dalla concentrazione della ricchezza. Il recente fallimento della Global Minimum Tax — evidenziato dall’esenzione delle multinazionali americane dal prelievo in altri Stati — mostra l’impossibilità di costruire una cooperazione fiscale effettiva tra democrazie, poiché essa è strutturalmente inconciliabile con il potere esercitato dai mercati globali. È ormai chiaro, anche per coloro che avevano riposto fiducia in quell’accordo, che rincorrere con successo su scala mondiale i grandi gruppi societari e i loro proprietari è un’illusione. Non perché un’efficace fiscalità non sia necessaria, ma per due motivi che dovrebbero essere evidenti.
Primo, confidare in imposte patrimoniali o successorie per rimediare in via straordinaria a quanto il sistema fiscale non riesce a correggere in via ordinaria risulta velleitario, soprattutto quando la concentrazione della ricchezza ha raggiunto livelli tali da vanificare l’efficacia di qualsiasi prelievo, se non accompagnato da interventi complementari quali la regolazione dei quasi-monopoli digitali e dei mercati opachi delle criptovalute. Secondo, perché il potere economico riesce a neutralizzare ogni tentativo di scalfirne gli interessi, in quanto il potere politico diffusamente aderisce a quegli stessi interessi. È infatti mistificatorio attendersi che gli stessi orientamenti politici che hanno legittimato il potere economico ad agire senza controllo, spesso a scapito di lavoratori e consumatori, possano essere improvvisamente animati da un impulso etico a redistribuire i profitti realizzati da soggetti che beneficiano di ampie zone di impunità fiscale e, talvolta, di rilevanti commesse pubbliche nei settori della comunicazione e della difesa.
Nella democrazia di mercato reciprocità e cooperazione non occorrono, e ciò vale anche per il sostegno che molti governi continuano a offrire ai paradisi fiscali interni all’Unione Europea — Olanda, Irlanda e Lussemburgo in primis — che prosperano indisturbati nello spazio economico comune. Analogo è il caso della spesa europea per il riarmo. Il richiamo alla cooperazione, esemplificato dall’obiettivo di destinare a tale scopo il 5 per cento del PIL entro il 2035, non deve trarre in inganno. Ogni paese sarà infatti indotto a negoziare autonomamente i propri contratti di produzione degli armamenti, in assenza di coordinamento e con costi amministrativi destinati a moltiplicarsi. Inoltre, alla necessità strategica del riarmo si affianca l’idea che la crescita economica possa essere favorita dalla spesa militare, comprimendo ulteriormente la spesa sociale considerata improduttiva (cfr. Hemerijck e Matsaganis,).
In questo scenario, e restando in Europa, le recenti reazioni popolari in Francia contro l’arretramento dello Stato sociale e il successo elettorale a Copenaghen di programmi a difesa delle politiche sociali e assistenziali segnalano una possibile inversione di tendenza in risposta alla riduzione — o alla negazione — di diritti sociali divenuti oggetto di negoziazione in democrazie che arretrano innanzi al potere dell’economia. Per questo è necessario restituire valore e fiducia al contratto sociale e al patto fiscale, evitando di ridurlo a illusorie e parziali scelte di giustizia fiscale. In caso contrario, il percorso dalla democrazia di mercato al nichilismo politico rischia di giungere a compimento senza incontrare ostacoli.