Erika perdona, Donald no.
“Dio butta i nostri peccati, quando noi siamo perdonati, nel mare delle dimenticanze;
e poi mette su un cartello che dice: PROIBITO PESCARE.”
(Chuck & Nora e… il perdono, “Per lodare te”, TBNE)
Ci ha messo un pò di tempo, il Padreterno, nonostante la sua “ovvia presenza in sala”. Quando Erika Kirk ha rivolto lo sguardo al cielo la seconda volta, si è infine manifestato e le ha dato la forza di perdonare l’assassino di suo marito.
Non è del suo dolore, né della sua fede, che qui si intende scrivere, tanto meno ironizzare. L’orrore dell’esecuzione di una vittima inerme, moltiplicato dalla sua visibilità, ha suscitato emozioni profonde e reazioni forti. In questa commemorazione, un evento di massa impostato come manifestazione politico-religiosa, il perdono di Erika svolge una funzione chiave, perché assume su di sè tutta la sofferenza implicata nel concetto di “arrendersi a Cristo”, cioè rinunciare all’istinto dell’odio e della vendetta. E’ l’apoteosi emotiva di una celebrazione martirologica, quasi l’atto fondativo di un nuovo culto-movimento, che del cristianesimo sembra prediligere la versione belligerante dei templari.
Il discorso della vedova precede l’orazione conclusiva di Donald Trump. Prima di lei, la lista degli oratori prevede influencer e politici più o meno amici di Charlie, come Jack Posobiec, sedicente “reality journalist” impegnato a promuovere varie teorie cospirazioniste, incluso il “Pizza-gate”, più recentemente autore di Unhumans: The Secret History of Communist Revolutions (and How to Crush Them), ove afferma che, come la storia dimostra, la democrazia non è un sistema efficiente per liberarsi dei nemici dell’umanità, e infatti tra i suoi eroi ci sono Franco e Pinochet. Poi Tucker Carlson, uno dei pochi che FoxNews abbia ritenuto troppo estremo per i suoi gusti, risorto come podcaster di successo e famoso per una intervista a Putin condotta in ginocchio; Donald junior, che ancora gioca al figlio discolo e un pò ribelle che il saggio padre deve tenere a freno, e racconta della gioiosa spedizione in Groenlandia al fianco di Charlie; Stephen Miller, forse il volto più tetro dello staff presidenziale, ispiratore delle retate anti-migranti dell’ICE e molto altro, che sfodera una retorica da saga celtica; Marco Rubio, già rivale e vittima di Trump nel 2016 e in questa occasione impegnato a legittimarsi di fronte al popolo Maga, in vista di una eventuale competizione per la successione; e infine lo stesso Vance, che secondo la leggenda sarebbe stato scelto come vice anche grazie al sostegno del defunto: “Era Atene e Gerusalemme – la città della ragione e la città di Dio – in una sola persona.” Ma – precisa Vance, caso mai qualcuno lo pensasse cosmopolita – la sua casa, la sua causa, era l’America: civiltà classica e tradizione cristiana sono le fonti da cui sgorga il sacrificio nazionale cristiano, la determinazione inflessibile a opporre la luce alle tenebre.
Dopo un insieme di interventi mirati a proiettare l’immagine di un militante cristiano esemplare, devoto alla famiglia e alla patria, votato alla missione di riportare i giovani americani a Gesù – applauditissimo, ma non quanto Charlie o Donald – era lecito chiedersi cosa mai avrebbe potuto dire di nuovo o diverso il presidente.
E invece: per dare testimonianza di quanto fossero vicini, prima racconta le innumerevoli telefonate in cui Kirk lo invitava ai suoi dibattiti – “il giorno prima! E io: sai Charlie, sono il Presidente! Ma ci andavo, qualche volta ci andavo, perché Charlie sapeva essere così persuasivo, e non mollava mai”. Poi regala tre notizie: la prima è che, in una delle ultime conversazioni prima della morte, Kirk lo ha pregato di salvare Chicago, novella Sodoma – “E lo faremo: salveremo Chicago!”; la seconda è che il giorno dopo è prevista una conferenza stampa storica, insieme a RFK, in cui sarà rilevata la vera origine dell’autismo, o meglio del suo recente e vertiginoso aumento (il paracetamolo); e la terza, non esattamente una novità, è che Erika perdona, lui no. Lui odia i suoi nemici, riporterà la religione in America e scaccerà le forze del male.
Nonostante la ben nota allergia di Trump alla retorica del sacrificio – i veterani come “losers”, a partire da McCain – il fatto che il Padreterno abbia convocato Charlie nel regno dei cieli e abbia invece deciso di lasciare lui illeso a combattere il paracetamolo e gli stupratori – purché messicani – completa la sacralizzazione del suo movimento, che già dall’attentato pre-elettorale aveva ricevuto un forte impulso.
L’assassinio di Kirk è stato già associato all’incendio del Reichstag: un “turning point”, il dramma che scatena l’ultima accelerazione autoritaria. Nonostante l’abbondanza di suggestioni che l’estrema destra contemporanea ci offre, è lecito dubitare della pertinenza e dell’efficacia dei parallelismi storici, che possono anche produrre effetti lievemente surreali – ad esempio rinomati accademici americani esperti di fascismo che, per combatterlo meglio, si sono trasferiti in Canada, così adesso sono liberi di avvisarci che, “come ci insegna la storia degli anni 30”, chi non fugge in tempo è perduto.
Alterazione dello stato di diritto – Trump, grazie alla corte suprema, è ormai legibus solutus -, costituzione di una forza di polizia autonoma dedicata a deportazioni di massa basate su lingua e colore della pelle, dispiegamento della guardia nazionale a L.A. e Washington sulla base di emergenze inventate, progressiva ed efficiente compressione della libertà di informazione e di espressione, trasformazione sistematica delle istituzioni democratiche in opportunità di corruzione a livelli forse davvero inauditi, accompagnata all’intimidazione e alle purghe contro chiunque non si adegui, anche solo svolgendo il proprio lavoro; e siamo solo all’inizio.
Vogliamo chiamarlo fascismo? Si può fare, ma analizzare le forme simboliche, l’infrastruttura finanziaria e tecnologica, le connessioni politiche ed economiche globali con cui l’estrema destra sta alimentando la sua guerra santa, è utile se prima o poi si traduce in una strategia politica e culturale, non se si risolve in un esercizio identitario volto a denunciare, confortare, soccombere.
Peter Thiel, mentore di Vance, fondatore di Palantir e forse il più potente dei tecno-oligarchi trumpiani, non ha parlato alla commemorazione, ma sta girando gli USA impegnato in un tour di conferenze il cui oggetto è l’Anticristo, identificato – tra le altre cose – con la regolamentazione dell’intelligenza artificiale. Queste sue performance di teologia politica possano apparire come una bizzarria tra le tante, ma hanno il merito di mostrare con pochi filtri il volto del nazionalismo messianico di cui si sono fatti araldi i più ricchi tra i ricchi, eccitati dall’opportunità di abbattere qualsiasi limite giuridico, politico ed etico alla loro volontà di potenza, a maggior ragione mentre un nuovo salto tecnologico è in corso d’opera.
Per gli americani il problema più urgente è come assicurarsi di tornare al voto, a cominciare dall’anno prossimo e poi nel 2028, in condizioni democratiche; per gli europei, come evitare di diventare una colonia – anzi, una costellazione di colonie – in mano a un gruppo di tecno-pluto-cleptocrati fermamente determinati a farci pagare caro il Rinascimento.