Finanza

Disegni alternativi dell’imposta patrimoniale: l’imposta reale progressiva

L’occasione della vittoria dell’impronunciabile Madmani ha rilanciato il dibattito sulla progressività fiscale. Per contribuire a orientarsi, è forse utile un richiamo agli aspetti teorici della progressività fiscale e al dibattito recente in materia.

Nonostante le proposte di riforma emerse configurino come rimodulazioni di aliquote, spese fiscali e regimi sostitutivi del sistema vigente, o polarmente come imposte speciali aggiuntive sull’eredità o i patrimoni più alti, alla radice dei problemi di cui si è dibattuto anche negli ultimi anni vi è una questione più radicale relativa ai fondamenti della progressività dei sistemi fiscali,

Un sistema progressivo richiede di individuare una base imponibile larga in grado di segnalare la capacità contributiva degli individui. È possibile immaginare sistemi tributari progressivi non ispirati a questo principio di generalità dell’imposta, in cui la progressività sia demandata a imposte indirette e speciali, ma i problemi di natura tecnica, teorica e politica evidenziati nel dibattito del secolo scorso escludono la sostenibilità di un sistema di questo tipo.

Da un lato, un sistema fondato su un’imposta generale diretta a base imponibile larga consente un’effettiva redistribuzione con limitate distorsioni allocative. Dall’altro, la chiara identificazione di una base imponibile rende trasparente il principio equitativo sottostante, il motivo che determina chi paga di più e chi paga di meno, permettendo una migliore realizzazione degli obiettivi redistributivi, e incidendo sulla sostenibilità politica delle entrate pubbliche.

In alternativa, un sistema in cui il prelievo progressivo è frammentato in una pluralità di imposte a base ristretta, oltre ad aumentare le inefficienze, rende il criterio distributivo sottostante opaco (e più difficile da perseguire). L’opacità indebolisce il consenso politico verso la redistribuzione e spinge i vari gruppi di interesse a invocare per sé stessi regimi speciali in risposta a effettivi o presunti iniqui vantaggi di altri gruppi.

Un esempio: gli interventi del Governo Meloni sul recupero dell’inflazione, adottati con un esplicito obiettivo di progressività — in questo in accordo sostanziale con le parti sociali — hanno utilizzato strumenti alternativi a quelli dell’imposta generale progressiva, l’IRPEF nel nostro caso. In particolare, sono intervenuti in maniera selettiva sulla rivalutazione delle pensioni e sulla fiscalizzazione degli oneri contributivi dei lavoratori.

L’uso di strumenti impropri, su interventi su larga scala, favorisce un sistema fiscale di tipo corporativo, in cui le appartenenze categoriali contaminano il principio della capacità contributiva. Nelle dichiarazioni del Governo sugli effetti regressivi della manovra, non sono pochi i riferimenti a compensazioni per precedenti interventi più progressivi.

Sebbene strumenti alternativi all’imposta generale siano sempre esistiti, la tendenza oggi è verso una loro maggiore diffusione, nel concreto e nelle varie proposte , da destra a sinistra. La causa è il proprio problema di fondo già menzionato: il declino dell’imposta personale sui redditi come imposta generale.

Il ruolo di base imponibile dell’imposta progressiva è stato infatti storicamente ricoperto dal reddito, nelle sue diverse possibili definizioni. I motivi di questa scelta rispetto alle alternative — principalmente l’imposta sulla ricchezza — non sono tanto di natura teorica, che pure esistono seppur sotto condizioni non del tutto generali, quanto di natura pratica, legate a questioni di accertamento e riscossione.

La possibilità di sfruttare la busta paga come evidenza e il datore di lavoro come sostituto d’imposta, tanto per fare un esempio, rende agevole tassare una quota rilevante dell’imponibile. Più in generale, deviare da un flusso esistente (il pagamento di una remunerazione in corso) è più semplice che generare un flusso a partire da uno stock.

Il problema però è che l’imposta sui redditi ha progressivamente perso la sua caratteristica di generalità (e continua a perderla) per trasformarsi in un’imposta gravante su lavoro dipendente e pensioni. Il fenomeno non è esclusivamente italiano ma in Italia assume una particolare intensità.

Tale dinamica è riconducibile soprattutto al fortissimo tasso di erosione ed elusione della base imponibile relativa alle altre componenti del reddito, in particolare ai redditi da capitale e ai capital gains.

L’aumento dei fenomeni erosivi — in cui la crescente mobilità internazionale dei capitali svolge un ruolo determinante — genera una significativa inefficienza del sistema e impone il recupero del gettito perduto attraverso aliquote marginali elevate sulle componenti meno fugibili dell’imponibile. Da un lato ciò pone un problema di sostenibilità finanziaria; dall’altro indebolisce profondamente la capacità del sistema di perseguire obiettivi di progressività.

La diversa fugibilità delle fonti di reddito, che ha anche chiare implicazioni distributive, tende così a imporsi nei fatti come criterio dominante del prelievo, sovraordinato a quello della progressività.

Davanti a questa complessa questione di fondo, le alternative principali sono tre: rinunciare alla generalità dell’imposta progressiva, rinunciare alla progressività fiscale, oppure utilizzare una base imponibile generale alternativa.

L’inerzia, oggi prevalente, rientra nella prima alternativa. La seconda implicherebbe lo spostamento della progressività sul lato delle uscite invece che su quello delle entrate, che ne costituiscono il complemento. Rimarrebbe l’iniquità del prelievo che per costruire lo spazio fiscale alla redistribuzione in uscita dovrebbe comunque crescere nel complesso. La terza non sembrerebbe, allo stato attuale, un’alternativa realmente sul tavolo.

Le proposte oggi in campo rientrano anch’esse alla prima alternativa, in particolare quelle di Zucman, Saez e altri sulla tassazione dei grandi patrimoni. Infatti, non si propone di sostituire l’imposta sui redditi con quella sul patrimonio, ma di utilizzarla come strumento di backstop. L’idea è che l’erosione dell’imposta riguardi soprattutto i grandi patrimoni. Sebbene questo filone sia spesso ripreso anche da chi vede i grandi patrimoni come causa di grandi ingiustizie, alla base della proposta c’è il tentativo di costruire una soluzione di tipo second best.

Il riferimento diretto per la capacità contributiva continua a essere il reddito; la ricchezza rimane un criterio residuale, adottato per colmare le deficienze della base imponibile principale.

È tuttavia proprio questo carattere di soluzione di secondo livello a generare problematici effetti sistemici.

Il dubbio è che una tale proposta, non affrontando il problema di fondo, si muova nella stessa direzione di progressiva disarticolazione della trasparenza dell’azione pubblica in ambito distributivo, con le conseguenze di corporativizzazione fiscale già descritte.

Un tale sistema — imposta progressiva sui redditi affiancata da un’imposta personale sul patrimonio, piatta e limitata ai grandi patrimoni — non ha il fine di contrastare la crescente erosione dei redditi non da lavoro, ma piuttosto quello di attenuarne gli effetti a valle.

Se si prova a ricostruire il principio normativo implicito negli esiti effettivi di un sistema a due pilastri, di cui uno di scorta, si passa dal generico e intuitivo “chi guadagna di più paga di più” a un criterio diretto, secondo cui “chi lavora di più paga di più, e chi ha troppo paga un extra”. Quest’ultimo principio presenta diversi aspetti problematici, sia nella sua focalizzazione sul lavoro, sia nel concetto di “troppo” che definisce la soglia del ricco.

Resta, invece, esclusa dal dibattito la terza delle opzioni sopra elencate, ben più radicale delle proposte in campo: l’uso della ricchezza come base imponibile larga, in sostituzione o in combinazione con il reddito. Si andrebbe, sul piano dei principi normativi, verso un più netto “chi ha di più paga di più”.

Per andare  in tale direzione occorre affrontare diverse questioni teoriche e pratiche, ma a parere di chi scrive nessuna costituisce un impedimento effettivo. La prima riguarda il principio normativo. Anche Saez, Piketty e altri considerano il reddito preferibile al patrimonio come riferimento per la misurazione della capacità contributiva. Qui la questione è in larga parte di filosofia politica. Tuttavia, volendo spezzare una lancia a favore della ricchezza come criterio di capacità contributiva, va ricordato che, al momento della scelta — prima cioè dell’esercizio del libero arbitrio o di ciò che la letteratura sull’uguaglianza delle opportunità definisce “effort” — la ricchezza agisce come vincolo, come capacità abilitante. Se il problema della capacità contributiva viene letto nell’ottica dell’uguaglianza delle opportunità, e si intende ridurre il prelievo sull’“effort” a favore di quello sul “luck”, la ricchezza presenta proprietà normative desiderabili.

La seconda questione riguarda il tipo di distorsione che si induce. L’imposizione sui redditi, disincentiva, naturalmente, l’impegno nella produzione. In un modello di crescita. la tassazione della ricchezza, riducendo il tasso di rendimento del capitale conduce, in un tradizionale modello di crescita, a un equilibrio peggiore rispetto a quello che si avrebbe con un’imposizione equivalente sul reddito. Questo argomento è tuttavia discutibile sotto due aspetti.

Il primo punto riguarda l’entità del disincentivo: una patrimoniale di ammontare simile al gettito dell’imposta sui redditi equivarrebbe a un’aliquota di circa due punti percentuali, quindi non necessariamente superiore ai margini di stimolo agli investimenti recuperabili via politica monetaria, sul tasso base. Il secondo punto riguarda il sistema fiscale nel suo complesso: l’altra imposta principale per gettito, quella sugli scambi, opera esattamente in senso opposto, poiché tende a disincentivare i consumi,

Al di là delle questioni teoriche vanno considerati gli aspetti pratici, soprattutto quelli relativi all’ efficacia in termini di gettito. L’imposta patrimoniale presenta problemi rilevanti in tema di accertamento e riscossione. Una parte di tali problemi può essere risolta rinunciando al carattere di imposta personale che caratterizza le proposte di patrimoniale oggi in discussione.

A differenza dell’imposta sul reddito, le imposte patrimoniali si sono affermate storicamente come imposte reali, cioè commisurate direttamente al valore del patrimonio indipendentemente dal suo proprietario, con un’aliquota sostanzialmente fissa, trova giustificazione nell’alveo della teoria del beneficio, e non in quello della capacità contributiva. Sul piano pratico, essa presenta pochissime difficoltà di accertamento, poiché ciò che è ricchezza è generalmente tale in quanto esigibile dal proprietario e, quindi, è registrato.

Nella versione di backstop dell’imposta sui redditi, l’imposta patrimoniale è coerentemente disegnata come imposta personale, per incidere sulle grandi ricchezze personali. Ciò implica problemi di erosione della base imponibile che possono risultare persino superiori a quelli dell’imposta sui redditi.

Un falso mito, tuttavia, è che l’imposta personale sia l’unico strumento per realizzare progressività. È vero che, con un’imposta reale, un sistema di aliquote differenziate risulterebbe di fatto non implementabile soprattutto perché incentiverebbe il frazionamento del patrimonio, che, peraltro, non sarebbe assente nemmeno nel caso delle imposte personali. Con un’imposta reale ad aliquota unica, la progressività può essere ottenuta ricorrendo a crediti d’imposta personali, in modo da ottenere progressività tramite l’esenzione nei fatti dei patrimoni piccoli.

Se è vero che la forma reale facilita l’accertamento, rimangono alcune difficoltà pratiche che contribuiscono a spiegare perché storicamente l’imposizione sui redditi si sia affermata rispetto a quella sul patrimonio. Si tratta tuttavia di problemi prevalentemente tecnici, oggi più gestibili anche grazie all’evoluzione nella tecnologia, nella normativa e nelle istituzioni.

Il più rilevante riguarda l’incapienza, cioè i casi in cui la ricchezza è in forma poco liquida e i redditi sono bassi. Un sistema di crediti d’imposta personali risolverebbe probabilmente la maggior parte dei casi rilevanti, perché la scarsa liquidità è un problema soprattutto per le fasce basse della distribuzione della ricchezza. Inoltre, la crescente possibilità di dilazionare nel tempo debiti e crediti fiscali rende oggi questo problema più contenuto rispetto al passato.

L’aumento della quota di ricchezza finanziaria ha infine ampliato la possibilità per le istituzioni finanziarie di operare come sostituti d’imposta. A differenza dell’imposizione sui redditi, dove tale meccanismo grava soprattutto sulle componenti più diffuse nelle fasce medio-basse, nel caso della ricchezza avviene l’opposto.

L’obiettivo di un simile cambiamento sarebbe quello di non rinunciare a imposte generali, riaffermando principi equitativi trasparenti, generando meno inefficienze e invertendo la tendenza balcanizzante dei sistemi tributari che mina la sostenibilità politica e l’equità effettiva.