nubi-nere-sull’universita-italiana
Finanza

Nubi nere sull’università italiana

Sul presente e sul futuro dell’università italiana si stanno addensando molte nubi nere, vecchie e nuove, che lasciano presagire tempi duri. Sono di diverso tipo e provenienza: in questo intervento si proverà a descriverle e distinguerle, anche grazie all’incessante azione informativa e di sollecitazione della Rete delle società scientifiche italiane.

Un primo insieme di nubi è particolarmente minaccioso. Sono apparse da poco, sono ancora lontane, ma potenzialmente assai pericolose. Possono oscurare la stessa libertà di espressione nel sistema universitario. Molte provengono da oltre Atlantico: è ben nota la tesi del Vice-presidente J.D. Vance secondo cui “le università sono il nemico”; così come sono state intense le azioni della nuova Presidenza contro alcune dei più noti atenei statunitensi. Nulla di paragonabile sta avvenendo in Europa, per fortuna. Eppure, ci sono avvisaglie preoccupanti (si veda anche un recente rapporto francese). In Italia, alcuni eventi inducono preoccupazione. Recentemente, anche in connessione al moltiplicarsi delle proteste “pro-Pal, si è registrato un episodio gravissimo, non in ambito strettamente universitario ma comunque collegato alla libertà di ricerca: la mancata pubblicazione nel volume Politica in Italia edito da Il Mulino per l’Istituto Cattaneo un saggio sulla partecipazione politica giovanile in Italia.

Poi, sono arrivate le iniziative del governo Meloni: un decreto dell’11 settembre che, modificandone il regolamento pone l’ANVUR (Agenzia Nazionale di Valutazione del sistema Universitario e della Ricerca) sotto il diretto controllo dell’esecutivo. Certo, appare condivisibile la valutazione di quanti ritengono che si sia solo reso esplicito ciò che era evidente sin dal dibattito che aveva preceduto l’istituzione dell’agenzia: che l’Anvur sia nata come braccio del governo per controllare l’università e per giustificare i tagli selettivi dei finanziamenti (cfr. più avanti); tuttavia che questo sia ora ufficiale, colpisce. Sta poi circolando il testo della riforma della governance delle università partorito dalla commissione presieduta da Ernesto Galli Della Loggia, che istituisce meccanismi di diretto controllo da parte del governo. Anche l’incremento della durata in carica e dei poteri dei rettori, insieme all’intenzione di abolire l’abilitazione scientifica nazionale tornando ad un assai problematico modello di concorsi universitari locali procura dubbi su quel che potrà accadere negli atenei. Ancora niente di paragonabile con gli eventi americani; eppure, gli allarmi lanciati con la lettera delle Società Scientifiche citata in apertura, o dagli interventi di Tomaso Montanari e di Lorenzo Zamponi sembrano giustificati. A ciò si aggiunga che, in un possibile scenario futuro di incremento delle spese militari e delle attività di ricerca ad esse collegate anche in collaborazione con la ricerca universitaria, un maggiore controllo degli atenei diviene un tema cruciale.

Un secondo insieme di nubi è altrettanto minaccioso, meno noto, ma già con effetti evidenti. Nel 2024-25, come illustrato in un dettagliatissimo intervento di Luca Scacchi, quasi un sesto degli iscritti all’università frequenta atenei telematici: un dato che ha avuto una crescita esponenziale rispetto al passato, anche recente (fig. 1). La percentuale degli iscritti alle telematiche raggiunge quote particolarmente alte in alcuni ambiti: 34% a psicologia, 21% a giurisprudenza e 18% a economia, come riportato da Cappa e Gavosto.

Figura 1: Iscritti negli atenei telematici italiani

Fonte: Scacchi (2025) su dati Ustat

Il punto non è la natura privata di queste università (da tempo ve ne sono altre), l’attività telematica: il volume appena citato documenta il ruolo della formazione a distanza in altri paesi europei. Il punto cruciale è che, diversamente da quanto avviene in Europa, i soggetti che gestiscono le telematiche in Italia hanno fini di lucro. In Italia, il principale operatore (che controlla Pegaso, Mercatorum e San Raffaele) è il gruppo Multiversity, che fa capo al fondo di investimenti CVC e l’ intervento complessivo è di circa due miliardi. Come analizzato nel volume di Cappa e Gavosto, la redditività di questa attività è straordinaria: il margine operativo netto è fra il 30% e il 40% del fatturato, che per l’insieme delle telematiche già nel 2023 sfiorava il miliardo, grazie anche al divieto di istituire nuove telematiche che produce una condizione di rendita protetta per quelle esistenti. Questa straordinaria redditività per gli azionisti di CVC è dovuta ai bassissimi costi, in particolare di personale. La Corte dei Conti ha documentato come nel 2023 vi fossero 336 studenti per docente di ruolo nelle telematiche contro 26 nelle statali; nel 2023 l’81% dei loro docenti è a contratto. Ciò è reso possibile dalla mancanza di regole cogenti, avallata dal recente decreto ministeriale 1835 del 6.12.2024 che ha modificato i rapporti minimi docenti/studenti istituiti dal governo Draghi ma non entrati a regime, ha allungato anche i tempi per raggiungerli e ha modificato la disciplina degli esami.

Su alcune condizioni della docenza nelle telematiche profit si è già scritto, sottolineando in particolare l’impressionante diminuzione della quota degli iscritti fuoricorso. Cappa e Gavosto documentano come “gli studenti iscritti al primo anno delle telematiche hanno caratteristiche di partenza che li rendono scolasticamente più deboli (…), eppure la media dei voti del primo anno (…) è più elevata”. Insomma, interrogativi sulla qualità della didattica, e sullo svolgimento degli esami in questi atenei appaiono fondati. Eppure, non si interviene. Le telematiche profit sono sostenute da un ampio schieramento politico, pur avendo ricevuto un particolare sostegno dall’attuale governo. Il sito di Multiversity è assai opaco a riguardo, ma wikipedia ci informa che al vertice c’è l’ex Presidente della Camera Luciano Violante; notizie di stampa risalenti al 2023 (non se ne ritrovano di più recenti) informavano anche di una prestigiosa composizione del suo advisory board. Per l’ex presidente dell’Anvur, Paolo Miccoli, ora presidente di UNITED, l’associazione delle telematiche, non ci sono dubbi: queste università sono il futuro. La competizione con le statali è del tutto impari: non ci sarà da stupirsi se il corpo docente delle telematiche sarà rafforzato, se i loro corsi si estenderanno a nuovi ambiti disciplinari (anche grazie alle nuove tecnologie), se i loro iscritti aumenteranno, a danno delle statali. In un quadro di decremento demografico (specie al Sud) e di stazionarietà dei tassi di passaggio dal diploma all’università, potranno aversi, anche a breve, effetti dirompenti sul sistema universitario italiano.

Il terzo ed ultimo insieme di nubi è assai esteso, ma presente nel cielo delle università italiane da ormai quasi venti anni. Discende dalla scelta strategica di non investire maggiormente nella formazione terziaria, anzi di ridurre le risorse ad essa destinate nonostante, come ben noto, la spesa italiana e la quota di giovani laureati siano ai livelli più bassi in Europa. Non investire sull’università mette a rischio il futuro del paese da una pluralità di punti di vista, civili come economici. Ma consente di risparmiare sulla spesa pubblica; e permette – come si è appena visto – un’espansione del privato anche in questo ambito. Queste nubi determinano due tipi di piogge particolarmente intense: uno sui giovani ricercatori, l’altro sugli atenei “periferici”.

Per i primi, il quadro è tristemente semplice. Vi è una strada diretta per risparmiare sulla spesa pubblica in istruzione universitaria: ridurre il costo dei docenti, che ne rappresenta la quota maggiore. Si può fare bloccando gli stipendi, come avvenuto negli anni Dieci; ma soprattutto non aumentando il loro numero, come si torna a fare in tempi recenti. Dopo alcuni anni di tendenze più positive, infatti, è stato nuovamente introdotta una limitazione al ricambio (turn-over) dei docenti che vanno in pensione. Per garantire i corsi si farà uso crescente di personale precario. Anche a tal fine sono state introdotte nuove figure di ricercatori, non stabili e con pochi diritti; proprio mentre vanno a scadenza i circa 35.000 contratti stipulati grazie al PNRR. Nell’insieme si tratta di misure che non potranno che favorire una nuova ondata di migrazione verso l’estero di giovani ricercatori italiani, per quanto le cose non vadano benissimo neanche altrove: come ha, ad esempio, documentato sul Menabò Emilio Carnevali.

Per gli atenei periferici, il quadro è anch’esso noto da tempo. Il lettore interessato può trovarne evidenza su queste colonne sin dal 2015, e dal 2016 (qui, qui e qui) e 2019, sulla rivista il mulino fino al cambio di direzione del 2023, in una ormai antica ma ampia ricerca. In sintesi, sin quando nel 2008 il ministro Tremonti decise di tagliare le risorse per l’università, da più parti fu invocata una “contrazione selettiva”: proteggere alcuni atenei dai tagli, concentrandoli sugli altri. A tal fine, molti “esperti”, in più sedi e soprattutto nel Ministero e nell’Anvur, hanno prodotto indicatori per l’allocazione del fondo di finanziamento ordinario e dei punti organico per il reclutamento, e per la valutazione della ricerca (con un peso crescente nel tempo), tali da permettere di raggiungere questo obiettivo mascherandolo da scelta tecnica, meritocratica. Questo, con un dibattito pubblico in cui ad esempio Francesco Giavazzi invitava dalla prima pagina del Corriere della Sera ad andare “a Bari, Messina, Urbino e a spiegare che la chiusura di quelle tre università (in fondo alla classifica dell’Anvur) è nell’interesse dei loro figli”. Queste scelte continuano ad avere espliciti propugnatori: un altro ex Presidente dell’Anvur (Graziosi) ha proposto di “aiutare i forti per poter continuare ad aiutare i deboli, cioè assicurare la tenuta dei nostri migliori atenei e lo sviluppo della nostra migliore scienza”: una versione 2025 della teoria dello “sgocciolamento” che giustifica ogni intervento a favore di chi sta già meglio, ben sapendo che così le disuguaglianze (fra persone, fra regioni, fra atenei), non fanno che accrescersi. Una gerarchizzazione degli atenei è suggerita anche nel più volte citato libro di Cappa e Gavosto. Per ottenerla, non c’è tuttavia bisogno di fare granché di nuovo. Il meccanismo messo in piedi ha già sortito i suoi effetti e la “contrazione selettiva” si è cumulata nel tempo, generando squilibri sempre maggiori. Le dinamiche demografiche, naturali e migratorie, si incaricheranno con il tempo di completare l’opera.

Amareggia, e molto, che nel paese e fra gli stessi universitari l’attenzione prestata a questi cieli tempestosi sia stata così limitata. La speranza è sempre che si cominci ad alzare – e non di certo per rassegnazione – gli occhi al cielo.