Instabilità economica e politica. Una riflessione a partire da Il tempo di Ares di Stefano Lucarelli
Come si è arrivati a un mondo in cui il conflitto — economico, finanziario e militare — sembra tornato il motore centrale delle relazioni internazionali? Siamo in un tempo in cui la competizione economica globale, la centralizzazione del capitale e la liberalizzazione finanziaria hanno creato un ambiente strutturalmente instabile, dove la guerra — o la minaccia di essa — diventa un’estensione della politica economica.
L’instabilità del sistema economico mondiale sta segnando la nuova geopolitica internazionale. Secondo alcuni studiosi – fra cui si annovera anche Stefano Lucarelli, autore di un interessante saggio appena pubblicato, Il tempo di Ares. Politica internazionale ‘leggi economiche’ e guerre (Mondadori Università 2025) – l’apertura dei mercati e la globalizzazione finanziaria hanno favorito la centralizzazione del capitale e la formazione di squilibri creditore-debitore che, combinati con politiche protezionistiche, tecnologia e rivalità geopolitiche, alimentano la crescita delle spese militari e il rischio di conflitti.
In questo quadro è lecito richiamare la necessità di un ripensamento istituzionale (una nuova Bretton Woods sul modello della International Clearing internazionale proposta da Keynes) per stabilizzare i flussi di capitale e ridurre le tensioni. Tra le proposte che caratterizzano l’attuale dibattito sui problemi che affliggono il sistema degli scambi internazionale troviamo una regionalizzazione sensata del commercio, una nuova regolazione dei movimenti di capitale, una valuta internazionale meno dipendente dalla valuta egemone (dollaro) e la realizzazione di istituzioni multilaterali che limitino rivalità e deterrenza armata.
Se si guarda solo ai legami tra posizioni nette verso l’estero e le spese militari, come hanno fatto i diversi economisti che nel Febbraio 2023 hanno promosso sul Financial Times l’appello “The economic conditions that makes wars more likely”, si rischia di eludere una questione a me molto cara legata della demografia, più precisamente la popolazione potenzialmente al lavoro, che non dovrebbe essere esclusa nella riflessione quando si discute della nuova e ancora incerta geografia economica internazionale. Infatti, la popolazione potenzialmente al lavoro è il pavimento della domanda effettiva che permette alle aree economiche di consolidare le proprie aspettative di crescita.
Il mito come chiave di lettura dell’economia mondiale. Si tratta di temi molto complessi, di fronte ai quali la recente pubblicazione di Stefano Lucarelli ha il merito di ricorrere a un intelligente escamotage, in grado di conquistare l’attenzione anche dei non addetti ai lavori: i miti sono trasformati in strumenti analitici. Ares non è solo la divinità della guerra, ma il principio che domina quando la logica della potenza — militare o economica — prevale sulla cooperazione. Ermes rappresenta il commercio, la finanza, la fluidità dei flussi e degli scambi, cioè il dio che unisce, ma che può anche destabilizzare se la sua energia non è regolata, Pan è il simbolo di una possibile riconciliazione tra economia e natura, tra crescita e limiti, tra politica e solidarietà.
Si tratta di una metafora della storia economica contemporanea: dal dominio di Ermes (la globalizzazione finanziaria e mercantile) siamo passati al tempo di Ares, un mondo di disuguaglianze e tensioni geopolitiche, in attesa che emerga il tempo di Pan. L’uso dei miti consente di trasformare la narrazione simbolica in strumento analitico, restituendo un quadro teorico in cui potenza, mercato e cooperazione costituiscono i tre poli della modernità capitalistica.
Le radici economiche del disordine globale. In questo schema, il conflitto non nasce da ideologie o incidenti diplomatici, piuttosto da asimmetrie strutturali nella distribuzione della ricchezza e del potere finanziario. Infatti – come lo stesso Keynes ben sapeva quando preparò la sua proposta di International Clearing Union e come il governatore della Banca Centrale cienese, Zhou Xiauchan, aveva ricordato nel white paper preparato in occasione del G20 londinese nel pieno della Grande Recessione– paesi con surplus persistenti non accumulano solo riserve ma anche influenza politica, mentre i paesi debitori compensano la perdita di potere economico con il potere militare (in realtà sono solo gli Stati Uniti che possono permettersi questo approccio). È un ciclo perverso che ricorda le tensioni degli anni Trenta, ma amplificato da reti finanziarie globali e da una tecnologia che riduce drasticamente il tempo di reazione economica e bellica.
Gli spunti presenti nel libro di Lucarelli appaiono importanti ma occorrerebbe analizzare ancor più in profondità una questione in particolare: come si distribuisce oggi fra le diverse aree economiche nazionali e internazionali la conoscenza tecnologica in grado di governare il nuovo paradigma tecno-economico emergente? E cosa è più strategicamente rilevante in questo processo strutturale, le posizioni nette con l’estero oppure la domanda potenziale esprimibile dalla popolazione lavorativa? Infatti, la nuova geografia economica, per chi scrive, non è riducibile al dare e all’avere; la nuova geopolitica si misura anche con fenomeni quali-quantitativi difficilmente riducibili alle relazioni di credito e debito a livello internazionale. La Cina, per esempio, domina i brevetti tecnologici e gli investimenti nei settori emergenti, e può utilizzare il ruolo pubblico (Stato) in misura ben più profonda di quanto non facciano le economie mature di Europa e Stati Uniti, potendo contare anche su una domanda interna (potenziale) che nessuno dei paesi del vecchio capitalismo dispone.
La centralizzazione del capitale. Una delle parti più convincenti del volume di Lucarelli è dedicata alla centralizzazione del capitale, misurabile attraverso un indice di controllo azionario, il net-control, già proposto in diversi studi sulle caratteristiche degli odierni mercati finanziari (per esempio qui).
Il capitalismo odierno è molto lontano dal modello concorrenziale astratto studiati sui manuali di economia. La concorrenza fra capitali sembra invece confermare la legge marxiana della centralizzazione secondo la quale i capitali maggiori acquisiscono il controllo dei capitali minori, come sembra oggi evidente dai dati presentati anche da Lucarelli sia nel caso statunitense che in quello cinese.
L’effetto è quello di una riduzione della capacità degli Stati di mediare gli interessi, perché i mercati sono ormai dominati da attori finanziari globali che decidono flussi e investimenti su scala planetaria (si vedano i lavori passati in rassegna da Boitani su questa rivista). Questa concentrazione non è solo economica ma anche politica: i fondi pensione americani, i fondi sovrani asiatici e i giganti del risparmio gestito (BlackRock, Vanguard, State Street) diventano strumenti di influenza geopolitica tanto quanto le flotte o le basi militari. Da qui l’intreccio tra capitalismo e potenza militare: la difesa degli assetti finanziari globali richiede capacità coercitive e deterrenti, ossia una nuova forma di imperialismo finanziario armato.
Figura 2.2: Net control e centralizzazione capitalistica nelle principali economie extra-europee

Fonte: nostre elaborazioni su dati tratti da Brancaccio – Giammetti – Loprete – Puliga (2022)
Dal tempo di Ermes al tempo di Ares. Il passaggio dalla fluidità mercantile al conflitto è reso inevitabile dal venir meno delle istituzioni di coordinamento internazionale. Come ricorda anche Lucarelli, il sistema di Bretton Woods, pur imperfetto, garantiva una forma di stabilità macroeconomica e un equilibrio tra Stati creditori e debitori. La sua dissoluzione, unita alla deregolamentazione finanziaria, ha lasciato il mondo senza regole, affidato alla legge del più forte. Infatti, registriamo il ritorno delle politiche di potenza, del protezionismo, della corsa agli armamenti, così come ai dazi (USA) che cercano di riscrivere il nuovo ordine internazionale fondato sul binomio amici-nemici. La “guerra economica permanente” è ormai una miscela, pericolosissima, in cui le armi tradizionali e quelle monetarie si mescolano: sanzioni, dazi, restrizioni tecnologiche, guerre valutarie. Anche gli Investimenti Diretti Esteri, comunque concentrati, sono concentrati in pochi poli regionali.
L’economia politica della guerra. Nella teoria economica si ritrovano strumenti utili ad analizzare le strategie dei paesi in conflitto. Il tempo di Ares, opportunamente, riprende il dilemma del prigioniero, una metafora utile per spiegare le interazioni strategiche tra potenze: si ha un gioco a somma variabile, dove la coppia di mosse «non collabora, non collabora» porta ad un totale di 10, mentre la coppia «collabora, collabora» porta ad un totale di 0. Ciò significa che senza fiducia e cooperazione, ogni Stato è spinto a riarmarsi per timore dell’altro, anche se ciò porta a esiti sub-ottimali per tutti. Il modello – che nel libro di Lucarelli viene presentato a proposito della guerra fredda – può servire anche per interpretare la realtà attuale: gli Stati Uniti aumentano la spesa per difendere la propria egemonia, la Cina investe per non restare indietro, l’Europa è trascinata in un equilibrio instabile tra alleanza e dipendenza; senza un meccanismo credibile di compensazione e di regolazione multilaterale, il sistema internazionale tenderà sempre alla militarizzazione.
Tabella 1.1. Il dilemma del prigioniero

Dal tempo di Ares al tempo di Pan. La parte finale, “Dal tempo di Ares al tempo di Pan”, è la più propositiva e forse la più utopica, e invita a pensare a una nuova architettura istituzionale globale, una sorta di “nuova Bretton Woods” capace di regolare i flussi di capitale e di creare strumenti di compensazione tra paesi in surplus e in deficit. Tra le diverse posizioni sul tema – su cui recentemente si sono soffermati anche Tria ed Arcelli– l’autore si esprime a favore della necessità di un clearing internazionale che riduca la dipendenza dal dollaro e favorisca una moneta internazionale neutra, più simile alla proposta keynesiana del bancor che non agli attuali SDR del Fondo Monetario.
Questa visione si estende anche alla dimensione ecologica e sociale: Pan rappresenta l’equilibrio con la natura, l’economia del limite, l’idea che la pace economica non può essere separata dalla sostenibilità ambientale. Più complessa è la prospettiva di “de-mercificazione” di beni comuni essenziali (energia, salute, ambiente) e di reinvestimento pubblico orientato al benessere collettivo. Sebbene non citato, credo faccia riferimento ai così detti beni di merito e strategici, così come ai fallimenti del mercato. Più precisamente, alla finanza funzionale, cioè all’idea che lo Stato si avvale, oltre che dell’attività di prelievo e di spesa attuata tramite il bilancio, anche di imprese pubbliche, regolamentazione dell’attività privata, politica monetaria e del controllo del credito (in tal caso di bilancio funzionale) per raggiungere alcuni obbiettivi strategici.
Occorre una politica economica capace di muovere più strumenti. Lucarelli, in fondo, auspica il passaggio da un paradigma di competizione a uno di cooperazione, dall’accumulazione alla cura.
Conclusioni. Il tempo di Ares precipita in un momento in cui l’Europa si interroga sul proprio ruolo tra gli Stati Uniti e la Cina, tra la NATO e la “autonomia strategica”: invita a interrogarci sulla dimensione economica dei conflitti e a come le disuguaglianze finanziarie e la deregulation producono tensioni geopolitiche. In altri termini, senza una riforma radicale del sistema monetario e finanziario internazionale, la pace resterà fragile, subordinata alla logica dei mercati e delle armi, unendo l’economia alla filosofia politica, la scienza alla critica sociale. La proposta di una “nuova Bretton Woods” e di un clearing internazionale richiama con forza la necessità di una regolazione multilaterale dei flussi di capitale, ma la transizione verso il “tempo di Pan” resta più un orizzonte normativo che un programma operativo.