Finanza

Una scomparsa annunciata: la politica di coesione e la proposta di bilancio UE 2028-2034

Il 16 luglio scorso la Commissione Europea ha presentato la sua proposta per il bilancio 2028-2034 della UE. Ora si apre una lunga fase di discussione e di mediazione, per arrivare probabilmente nel 2027, all’ approvazione condivisa con Consiglio e Parlamento. Per molti motivi, alcuni dei quali sono illustrati in questo intervento, sarà opportuno che nel nostro paese si apra al più presto una riflessione molto attenta su quanto potrebbe accadere.

Quella che probabilmente passerà alla storia come la peggiore Commissione Europea ha infatti formulato una proposta che fa fare non pochi passi indietro al processo di integrazione e che rivede, in senso negativo, importanti politiche. Qui si concentrerà in particolare l’attenzione su quella di coesione. In estrema sintesi, il documento prevede la sua scomparsa come sinora attuata e la sua sostituzione con finanziamenti ai singoli paesi programmati dagli esecutivi nazionali, assai simili al “modello PNRR” del Next Generation EU (NGEU). Perciò, questo scritto prima ricorda alcune principali caratteristiche sia delle politiche comunitarie di coesione che del NGEU, per poi illustrare brevemente la proposta di luglio avanzando alcune forti preoccupazioni.

La coesione territoriale rappresenta un architrave del processo di integrazione europea, suggellata dall’art 174 dei Trattati: “Per promuovere uno sviluppo armonioso dell’insieme dell’Unione, questa sviluppa e prosegue la propria azione intesa a realizzare il rafforzamento della sua coesione economica, sociale e territoriale. In particolare, l’Unione mira a ridurre il divario tra i livelli di sviluppo delle varie regioni ed il ritardo delle regioni meno favorite”. Le relative politiche (di cui si può leggere ad esempio qui e qui), sono state varate alla metà degli anni Ottanta per evitare che la creazione del mercato unico producesse una forte concentrazione territoriale delle attività economiche. L’idea politica di fondo era che l’integrazione comunitaria debba portare benefici a tutti gli Europei, ovunque essi vivano.

La coesione è arrivata presto a rappresentare circa un terzo del totale delle spese comunitarie (372 miliardi nel 2021-2027). È una politica che interviene in tutte le regioni, anche se con intensità molto maggiore in quelle più deboli, organizzata secondo principi e regole comuni a tutta l’Unione. Si tratta del principale canale comunitario di finanziamento degli investimenti pubblici e dei contributi alle imprese; le tante valutazioni disponibili ne mostrano l’efficacia nel rallentare i processi di incremento delle disparità e nel produrre effetti positivi in tutte le aree. I programmi di intervento sono in rilevante misura place-based, cioè provano a basarsi sulle diverse caratteristiche e potenzialità dei territori; sono definite da una complessa governance multilivello, con sussidiarietà verticale (Commissione-Stato Membro-Regione) e orizzontale (con una significativa partecipazione delle rappresentanze economico-sociali territoriali). Gli Stati Membri cofinanziano gli interventi; le risorse vanno utilizzate entro tre anni (“n+3”) dalla  conclusione del periodo di programmazione. A partire dal 2020, tuttavia, questi fondi sono state più volte utilizzati per fare fronte a interventi di emergenza: dal Covid alla crisi energetica fino alla proposta del progetto Re-Arm EU di utilizzarle per le spese militari, di cui si è detto su queste colonne.

In Italia, queste politiche hanno un’immagine molto peggiore della realtà: risorse abbandonate, sprechi. Non è così. Nel Mezzogiorno sono da tempo la principale fonte di finanziamento per infrastrutture, formazione e incentivi; al Centro-Nord per innovazione, formazione e incentivi. Non determinano processi di convergenza regionale (anche perché al Sud sono sostitutive di risorse nazionali e non aggiuntive), ma contrastano la divergenza e hanno determinato miglioramenti, per quanto contenuti e a macchia di leopardo, in alcuni ambiti. Presentano indubbi problemi. Scarsa collaborazione governo-regioni, complessità delle procedure (anche per i regolamenti comunitari), frammentazione degli interventi (anche perché coprono quasi tutti gli ambiti di intervento pubblico), estrema lentezza della spesa (maggiore per i programmi a regia nazionale che regionale; maggiore al Sud, dove le amministrazioni sono più deboli e i programmi più ampi e complessi, e includono anche infrastrutture). Va però considerato che solo per queste politiche vi è uno stretto monitoraggio dei tempi e che per il 2021-2027 si sconta in misura notevole lo spostamento di molti interventi nel PNRR. Nel 2024 è stata presentata una interessante proposta di riforma di queste politiche, che si è già avuto modo di commentare.

Più semplice ricordare il meccanismo NGEU. In sintesi, le risorse sono allocate su base nazionale e non regionale, e poi programmate dagli esecutivi nazionali, ovunque con una modestissima interlocuzione tanto con i governi sub-nazionali quanto con le rappresentanze economico-sociali. Le misure sono di carattere settoriale, raramente definite sulla base di diverse esigenze territoriali. La distribuzione geografica degli interventi è frutto di scelte complesse e sovente molto opache, come nel caso italiano: allocazioni dirette, bandi competitivi per enti pubblici e privati, senza alcun meccanismo per cui a bisogni e opportunità territoriali corrispondano specifici progetti. Ancora nel caso italiano, vi è solo una disposizione che prevede che il 40% delle risorse “territorializzabili” (non di tutte) sia destinato al Mezzogiorno, ma senza attenzione alle destinazioni all’interno delle macro-regioni meridionale e centrosettentrionale.

Le risorse vengono erogate sulla base del raggiungimento di obiettivi predefiniti: ma essi nella maggior parte dei casi, in tutta Europa, si riferiscono alla realizzazione degli interventi previsti, e non al loro concreto funzionamento a regime né tantomeno all’impatto che essi possono produrre. Piuttosto, tutti i piani nazionali, e in particolare quelli di maggiore dimensione come nel caso italiano, sono stati soggetti a continue riprogrammazioni con modifica di tempistiche e obiettivi: questo ha dato una grande flessibilità agli esecutivi nazionali ma ha reso più opachi i processi. Così come non vi è grande trasparenza circa gli avanzamenti dei programmi: soprattutto in Italia, le tempistiche di realizzazione degli investimenti pubblici si sono rivelate assai più lente di quanto programmato, a testimonianza di quanto ciò dipenda assai più da problematiche del paese che dal loro finanziamento con le risorse della coesione.

La proposta della Commissione per il bilancio 2028-2034 (anche qui sintetizzata), è assai discutibile sotto una pluralità di aspetti. Fra i più rilevanti, l’enfasi (anche economica: circa 300 miliardi) sulla dimensione esterna; sulle spese militari; sulla “competitività”, slegata però da qualsiasi considerazione di natura territoriale (con il rischio di acuire molto le disparità): ciascuno di essi meriterebbe un’apposita, approfondita discussione. Qui si concentrerà l’attenzione sulle politiche di coesione: esse, così come le abbiamo conosciute, spariscono. Ed è altamente simbolico delle evoluzioni politiche del nostro paese che questo accada in un periodo in cui il relativo Commissario è italiano (del Sud). Il relativo capitolo di bilancio (“rubrica” nel gergo UE) scompare, e la politica viene assorbita in un nuovo capitolo definito “Economic, social and territorial cohesion, agriculture, rural and maritime prosperity and security”. Lo European Parliamentary Research Service ha già potuto mostrare come ciò si traduca in un netto calo delle risorse eventualmente disponibili per la coesione. Come già avvenuto ad inizio del XXI secolo con il grande allargamento a Est, saranno i cittadini delle regioni più deboli d’Europa a finanziare le nuove priorità, il nuovo possibile allargamento e le spese per la difesa.

Ma vi è molto di più. La Commissione propone che ciascun paese si doti di un unico piano di investimenti e riforme per utilizzare queste risorse, la cui definizione, con la programmazione di un «Fondo unico», sarebbe nelle mani dei governi nazionali. Questo, sia con vincoli assai modesti di coinvolgimento degli enti sub-statali e delle parti sociali e di adozione di un approccio territoriale, sia con scarse indicazioni di priorità della Commissione («concentrazioni tematiche»). La politica si slega in rilevante misura dai grandi obiettivi comunitari, come la doppia transizione. Inoltre, fra i generici obiettivi di questo «Fondo unico» vi è anche esplicitamente quello di «sostenere la capacità di difesa e la sicurezza dell’Unione». È evidente come ciò si traduca in un forte aumento del potere discrezionale e della flessibilità di utilizzo delle risorse per i governi nazionali, ma con un potere di condizionamento della Commissione specie relativamente alle nuove regole di bilancio. Il potere si sposta dai territori alle capitali.

I rischi sono evidentissimi. In primo luogo, di riduzione e conflitti per le risorse: fra beneficiari, dato che tale fondo includerebbe tanto la coesione quanto l’agricoltura (molto forte politicamente, specie in Italia); fra territori, dato che i fondi sono infatti solo parzialmente pre-allocati territorialmente (vi è un «cuscinetto» per regioni più deboli). Prime stime dell’IFEL-Anci mostrano che in Italia vi sarebbero circa 30 miliardi per la politica agricola, circa 27 per regioni più deboli (con un sensibile calo rispetto al periodo 2021-27) e circa 20 miliardi da allocare tematicamente e settorialmente secondo le decisioni discrezionali nazionali, tenendo conto ad esempio che non ci sono plafond garantiti per le regioni “intermedie” (Marche, Umbria, Abruzzo).

In secondo luogo, rischi relativi alle scelte che si potranno fare: definizione di interventi settoriali a scala nazionale, indipendenti dalle esigenze dei territori: misure «one size fits all» non adatti o prioritari per tutti i territori, con obiettivi definiti a livello nazionale; possibile riduzione dell’equità territoriale e/o di compiere scelte in favore dei territori più «vicini» politicamente ai governi nazionali. Evidenti rischi di perseguire obiettivi di breve periodo (anche per l’introduzione della regola “n+1” per la chiusura dei programmi), con spesa più facile da rendicontare, per ottenere consenso politico immediato, invece di puntare su obiettivi di più lungo periodo.

Infine, rischi relativi alla governance: il rischio per i territori di “non contare”, la scomparsa dei partenariati locali e del ruolo di città e parti economico-sociali, la possibile percezione dei cittadini di «allontanamento» dell’Europa dalle loro necessità. La possibilità di dare fiato all’euroscetticismo: se le politiche di coesione vengono sostanzialmente rinazionalizzate, e perdono le loro caratteristiche di grande iniziativa comunitaria, che bisogno c’è di far transitare i contributi di ogni paese dal bilancio comunitario?

Contestare queste indicazioni non significa naturalmente difendere le politiche attuali. Ad esempio, l’assoluta centralità delle regioni, che nell’esperienza italiana si è rivelata assai problematica: possono essere accentuati sia il ruolo degli enti locali (ad esempio con politiche urbane direttamente programmate e gestite dalle città all’interno di programmi nazionali) sia quello di una vera strategia di paese che includa anche programmi multiregionali o a regia nazionale di grande impatto. Oppure le loro evidenti criticità regolamentari e procedurali, sulle quali la proposta del 2024 forniva utili suggerimenti, senza lasciare carta bianca agli esecutivi per flessibilità e riprogrammazioni.

Si tratta di evitare la rinazionalizzazione della più importante politica europea. Come notato, si apre ora un lungo e articolato processo di discussione della proposta. Il 30 ottobre scorso i presidenti dei gruppi parlamentari dei Popolari, dei Socialisti, di Renew e dei Verdi hanno inviato una durissima lettera alla Presidente Von der Leyen respingendo con forza l’ipotesi del ‘fondo unico’ nazionale come base di partenza per la discussione e chiedendo di rivedere la proposta della Commissione.

Sarebbe bene che, vista la centralità che questi temi assumono per l’Italia, non solo le rappresentanze territoriali, ma anche quelle economico-sociali, i ricercatori e soprattutto i partiti politici, vi dedicassero la massima attenzione. Senza l’approvazione del Parlamento Europeo e di tutti gli stati membri il bilancio non potrà essere varato: sarebbe bene ricordare al nostro governo, tanto per iniziare, che questa proposta va contro il tanto sbandierato “interesse nazionale”.