Finanza

Sicurezza sociale e tecniche di tutela dei diritti nelle catene globali di valore alla luce della direttiva 2024/1760

La direttiva (UE) 2024/1760 – pur con i suoi limiti, destinati probabilmente a essere accentuati dalla recente proposta di modifica della Commissione europea – costituisce, allo stato, il tentativo più avanzato di regolare a livello transnazionale i doveri di condotta delle grandi imprese nelle catene globali di valore e le connesse forme di responsabilità per gli impatti negativi sull’ambiente e i diritti umani. L’importanza della direttiva risiede proprio nella decisa opzione per una dettagliata regolazione vincolante del dovere di diligenza delle imprese ai fini della sostenibilità sociale e ambientale, con la positivizzazione nel diritto euro-unitario di principi affidati sino a ieri a un variegato insieme di strumenti di soft law di provenienza internazionale (a partire dagli influenti Guiding Principles on Business and Human Rights delle Nazioni Unite). È opinione condivisa che la direttiva segni, sotto tale profilo, un decisivo cambio di passo, marcando una sicura discontinuità con le pratiche essenzialmente volontarie di responsabilità sociale d’impresa (RSI) che hanno dominato la scena negli ultimi lustri, con risultati però molto scarsi, avvertiti ormai come palesemente insufficienti rispetto alle sfide poste dal tempo presente, quantomeno nell’ambito dell’Unione europea.

Questa scelta di positivizzazione – che si risolve in una giuridificazione e pubblicizzazione dell’impianto fondamentalmente volontaristico-privatistico della RSI – è chiaramente riflessa dalle tecniche di tutela adottate dalla direttiva. Questa, anzitutto, come è stato osservato, «adotta un approccio volutamente positivista riportando in allegato l’elenco dei diritti umani oggetto dell’obbligo di diligenza con le rispettive fonti» (Guarriello). Si tratta di un approccio che si discosta dai Principi Guida delle Nazioni Unite: mentre questi fanno generale riferimento ai diritti umani internazionalmente riconosciuti, la direttiva specifica il catalogo, peraltro piuttosto ampio, di diritti fondamentali, e di vincoli ambientali, al cui rispetto il dovere di diligenza delle imprese deve essere prioritariamente rivolto. Questo approccio selettivo – che certamente comporta talune controindicazioni rispetto alla tecnica del rinvio aperto, adottata ad esempio dalla legge francese sul dovere di vigilanza – è tuttavia temperato dalla direttiva sotto diversi profili. Il considerando 32 precisa che essa «mira a includere tutti i diritti umani» e che, pertanto, «dovrebbe rientrare negli impatti negativi sui diritti umani (…) anche l’abuso di un diritto umano non elencato espressamente (…) nell’allegato». Il successivo considerando 33 si incarica di precisare che, a seconda delle circostanze, «le imprese potrebbero dover prendere in considerazione norme supplementari», ad esempio tenendo conto di contesti specifici o di fattori che si intersecano tra loro, come il genere, l’età, la razza, l’etnia, la classe, la casta, l’istruzione, lo status di migrante, o quello socioeconomico, o ancora quello dovuto alla disabilità. Del resto, la Commissione è espressamente delegata ex artt. 3, par. 2, e 34 a modificare l’allegato alla direttiva, aggiungendo i riferimenti agli strumenti internazionali ratificati da tutti gli Stati membri e rientranti nell’ambito di applicazione di uno specifico diritto, divieto o obbligo connesso alla tutela dei diritti umani, delle libertà fondamentali e dell’ambiente indicato nell’elenco.

L’elenco contenuto nella prima parte dell’allegato dà ampio spazio ai diritti fondamentali dei lavoratori, anche autonomi. Vi sono espressamente ricompresi, naturalmente, tutti i principi e diritti fondamentali del lavoro quali definiti nella dichiarazione dell’OIL del 1998, come integrata nel 2022. Ma l’elenco è sicuramente più ampio e articolato. Il punto 6 fa puntuale riferimento al diritto di godere di giuste e favorevoli condizioni di lavoro, tra cui un equo salario, atto a garantire condizioni di vita dignitosa per i lavoratori dipendenti, e un reddito di sussistenza per i lavoratori autonomi e i piccoli coltivatori, guadagnato in cambio del loro lavoro e della loro produzione, un’esistenza decorosa, la sicurezza e l’igiene del lavoro e una ragionevole limitazione delle ore di lavoro, in linea con gli artt. 7 e 11 del Patto internazionale relativo ai diritti economici, sociali e culturali. Il punto 7 esplicita il divieto di limitare l’accesso dei lavoratori a un alloggio adeguato, se vivono in alloggi forniti dalla società, nonché a un’alimentazione, a un vestiario e a servizi idrici e igienico-sanitari adeguati sul luogo di lavoro. Il diritto fondamentale a un ambiente di lavoro sicuro riceve un chiaro riconoscimento e appare centrale nell’impianto dei doveri di due diligence imposti dalla direttiva.

Quanto alle tecniche di tutela, la chiave di volta è certamente rappresentata dalla analitica disciplina del dovere di diligenza, tanto sotto il profilo procedurale quanto sotto quello del contenuto sostanziale degli obblighi gravanti sulle imprese destinatarie della direttiva. Non v’è ovviamente modo di dar qui conto di questa disciplina, il cui scopo fondamentale è quello di prevenire gli impatti negativi potenziali sui diritti umani (art. 10) e, se del caso, di arrestarne gli effetti (art. 11). La logica di azione individuata è dunque tipicamente quella della mappatura e della prevenzione/minimizzazione del rischio, salvo l’intervento riparativo, a partire da quello volto alla interruzione degli impatti negativi effettivi. L’art. 12 fissa il principio che deve improntare le condotte riparatorie, stabilendo che gli Stati membri debbano provvedere a che una società che ha causato, o contribuito a causare congiuntamente con una propria filiale ovvero un proprio partner commerciale, un tale impatto negativo fornisca una riparazione. Tale previsione va letta congiuntamente con l’art. 29, che, nel disciplinare la responsabilità civile delle società, afferma la regola del diritto al pieno risarcimento del danno da parte della vittima della violazione (pur premurandosi di specificare, in linea con la prevalente tradizione giuridica continentale, che ciò non deve condurre a una sovracompensazione, né sotto forma di danni punitivi né di danni multipli o d’altra natura).

Le disposizioni in tema di responsabilità civile e di sanzioni sono indubbiamente tra le più innovative, visto che vanno a regolare con un certo rigore un profilo cruciale per l’effettività dell’intero impianto della direttiva, disciplinando con intenti di armonizzazione minima un’area sinora non presidiata dal diritto europeo. Non sorprende, quindi, che, dopo aver suscitato molte resistenze durante il complesso iter di approvazione della direttiva, queste regole siano tra quelle in prospettiva maggiormente incise dalla proposta di revisione presentata dalla Commissione europea [COM(2025) 81 final] con l’intento esplicito di semplificare e rendere più flessibile la normativa sulla responsabilità sociale delle imprese (in particolare le direttive 2022/2464 e 2024/1760), al fine di ridurre oneri, costi e, dunque, potenziali vincoli alla competitività sulle stesse gravanti. Oltre a incidere, riducendolo, sul perimetro degli obblighi di diligenza e, quindi, di connessa responsabilità (che in linea di massima non ricomprenderanno più i partener commerciali indiretti della catena di attività riconducibile all’impresa madre), la proposta presentata dalla Commissione, e sostanzialmente fatta propria dal Consiglio, mira in buona sostanza a ridimensionare drasticamente la portata armonizzatoria della direttiva, riscrivendo il testo dell’art. 29. Le due previsioni più incisive e innovative di tale articolo – ovvero la fissazione di criteri comuni di imputazione della responsabilità civile (par. 1) e l’attribuzione alle corrispondenti disposizioni nazionali di recepimento del carattere di norme di applicazione necessaria, nei casi in cui il diritto applicabile non sia quello di uno Stato membro (par. 7) – verrebbero tout court abrogate, per rilasciare spazio regolativo al diritto nazionale. Un arretramento non meno significativo, in analogia con un certo ridimensionamento del ruolo degli stakeholder, si avrebbe anche sul terreno – parimenti controverso – della legittimazione ad agire di sindacati e organizzazioni non governative, visto che anche in questo caso si propone di abrogare la disposizione, invero già piuttosto cauta, attualmente dettata dall’art. 29, par. 3, lett. d), della direttiva.

Insomma, ben prima che la direttiva sia destinata a produrre i propri effetti (proiettati, come noto, su tempi molto dilatati), si prospetta un depotenziamento di talune delle sue più significative e innovative disposizioni.