Assegno di Inclusione: meno universale, più diseguale. Il Rapporto di Caritas Italiana 2025 fa il punto dopo la riforma del 2023
Nel 2023 le politiche pubbliche di contrasto alla povertà in Italia hanno vissuto un radicale cambiamento: dal Reddito di cittadinanza (RdC), in vigore dal 2019, si è passati a due distinte misure, l’Assegno di Inclusione (Adi) e il Supporto Formazione Lavoro (SFL).
Come ormai noto, con l’introduzione di queste due misure è stato abbandonato il principio dell’universalismo selettivo, che garantiva il reddito minimo a tutte le persone in povertà indipendentemente da età o composizione familiare. La riforma ha introdotto invece un requisito categoriale: l’Adi spetta solo ai nuclei con minori, disabili, over 60 persone seguite dai servizi socio-sanitari, escludendo gli adulti “occupabili” (18-59 anni) che non soddisfano alcuna di tali condizioni. Per questi ultimi è stato previsto il SFL, un sussidio temporaneo e forfettario legato alla partecipazione a politiche attive per il lavoro.
Il Rapporto Caritas 2025 sulle politiche contro la povertà, “Assegno di inclusione. Un primo bilancio tra dati, esperienze e possibili scenari futuri”, analizza gli effetti della riforma del 2023 e il suo impatto concreto sulle persone e sui servizi.
Assegno di inclusione: la scelta di dare priorità alle condizioni familiari e i suoi effetti negativi sulla povertà. Come dimostrano ormai molti studi, presentati anche sul Menabò, la riforma non ha puntato a rafforzare il sostegno ai più poveri, superando i limiti del RdC, ma ha scelto di ridefinire i criteri di accesso basandosi sulla composizione familiare anziché sul livello di povertà.
L’obiettivo oggi non è più garantire una vita dignitosa a tutti i poveri, ma proteggere le famiglie con figli o con particolari situazioni di disagio. In particolare, l’intenzione di riservare alle famiglie con figli, con over 60enni, con persone con disabilità o non autosufficienza una protezione particolare ha come primo risultato ridotto il numero complessivo di beneficiari: si calcola che tra il 40 e il 47% di percettori di RdC abbia perso il diritto di ricevere l’Adi. Di conseguenza, anche l’efficacia nel contrasto alla povertà risulta minore: l’incidenza della povertà assoluta familiare, che con il RdC era scesa dal 7,3% al 6,5%, con l’Adi risale al 7,0%.
Restano, inoltre, evidenti i disallineamenti territoriali e di cittadinanza, già presenti nel RdC. I percettori dell’Adi risultano concentrati soprattutto nel Mezzogiorno, dove rappresentano circa il 69% del totale, a fronte di una quota di poveri assoluti molto inferiore, mentre nel Nord i beneficiari si fermano al 15%, mentre i nuclei in povertà assoluta costituiscono il 45% del totale nazionale, come di recente mostrato dall’Istat.
Allo stesso modo, gli stranieri hanno un peso rilevante tra i poveri assoluti (l’incidenza della povertà assoluta tra le famiglie con soli stranieri è del 35%), ma sono poco presenti nella platea dei beneficiari, composta per il 90% da cittadini italiani. La nuova scala di equivalenza introdotta con l’Adi ha infatti penalizzato soprattutto le famiglie numerose, spesso straniere, annullando di fatto l’effetto positivo derivante dall’allentamento del requisito di residenza (ridotto da 10 a 5 anni). Tra luglio 2023 e giugno 2025, il numero di nuclei stranieri beneficiari è diminuito del 40% contro il 35% degli italiani, segno di un impatto più severo sugli stranieri. In sostanza, il passaggio dal RdC all’Adi ha comportato un cambiamento nella forma ma non nella sostanza dell’esclusione: da una barriera esplicita legata alla residenza si è passati a una barriera meno evidente ma altrettanto penalizzante, legata alla composizione familiare.
Queste distorsioni rischiano di accentuare le disuguaglianze già esistenti, lasciando senza protezione proprio alcune delle fasce più fragili della popolazione.
È fisiologico che esista uno scarto tra le persone considerate povere in base agli indicatori statistici e quelle raggiunte dalle misure pubbliche: le soglie Istat di povertà, infatti, non coincidono con quelle amministrative utilizzate per l’accesso ai benefici. Tuttavia, se l’obiettivo è rendere una misura più efficace nel contrasto alla povertà, e se il vincolo è quello di riallocare le risorse in modo più mirato, la priorità dovrebbe essere data a chi si trova in condizione di povertà assoluta (e che quindi non ha il minimo indispensabile per viver dignitosamente nel suo contesto di vita).
La riforma dell’Assegno di Inclusione, al contrario, non va in questa direzione. Le evidenze mostrano che a risultare più penalizzate sono le famiglie senza carichi di cura familiari (minori, persone con disabilità o non autosufficienti, over 60), i lavoratori poveri, gli stranieri e, più in generale, chi vive al Nord. Si tratta di segmenti già fragili del tessuto sociale, come i dati sulla povertà assoluta attestano, che vengono così privati di un sostegno economico essenziale.
In questo senso, la riduzione della platea dei beneficiari non si traduce in una maggiore efficacia o in un miglioramento dell’equità del sistema. Al contrario, produce un effetto paradossale: mentre alcune famiglie vulnerabili restano escluse dal sostegno, altre che non versano in povertà assoluta continuano a beneficiarne, soddisfacendo i requisiti amministrativi per accedere alla misura. L’obiettivo di concentrare le risorse sui più poveri così rimane disatteso.
Inoltre, pur essendo legittimo riservare un’attenzione particolare alle famiglie, ciò non dovrebbe tuttavia compromettere il diritto universale all’assistenza in caso di povertà economica, indipendentemente da altre caratteristiche. Subordinare l’accesso al sostegno alla presenza di specifiche condizioni familiari comporta, di fatto, l’esclusione di ampie fasce di popolazione che vedono negato il diritto a un aiuto pubblico, configurando potenziali profili di incostituzionalità con riferimento all’articolo 3 della Costituzione (“tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali”).
Infine la scelta di una categorialità familiare al posto dell’universalismo selettivo ha fatto sì che l’Italia sia l’unico paese europeo senza una misura di reddito minimo rivolta a tutti i poveri in quanto tali, risultando inoltre la più distante dagli obiettivi della Raccomandazione UE del 2023, che invita a garantire redditi minimi adeguati, accessibili e integrati.
Caritas: paracadute per gli esclusi e anche per chi è dentro le nuove misure. Per valutare come la riforma abbia impattato sulle condizioni di vita dei nuclei in condizioni di bisogno, Caritas Italiana ha realizzato tre focus group che hanno visto coinvolti 50 operatori e operatrici di 20 Caritas diocesane di diverse regioni. Da questi focus group sull’attuazione dell’Adi sui territori dal punto di vista delle Caritas è emerso che gli operatori e le operatrici delle Caritas diocesane si sono trovate in questi mesi a gestire tre situazioni. La prima riguarda il sostegno degli esclusi: adulti soli di mezza età, giovani adulti soli, cittadini stranieri, persone con invalidità medio-grave senza pensione, “zone grigie” di disagio (donne vittime di tratta senza dimora, persone con pendenze penali o in misure alternative). Sono i cosiddetti “ultimi tra gli ultimi”, che adesso, tagliati fuori dall’Adi/SFL, tornano a bussare alla porta della Caritas con bisogni materiali e urgenti. La seconda attiene all’aiuto a coloro che, pur ricevendo l’Adi, non riescono a vivere dignitosamente: chiedono pacchi e viveri aggiuntivi a fine mese o piccoli aiuti economici per sostenere soprattutto le spese di affitto, essendo divenuta la casa una emergenza sociale esplosiva. La terza riguarda le funzioni para-amministrative di orientamento e accompagnamento alle misure che nella fase di transizione e gestione delle domande la Caritas si è trovata a svolgere per sopperire alla mancanza o insufficienza dell’orientamento istituzionale e per permettere di districarsi nel dedalo amministrativo acuito dalla digitalizzazione degli adempimenti burocratici.
In generale, va sottolineato che le Caritas stanno fronteggiando un consistente e inatteso aumento di domanda di aiuto. Se con il RdC molte famiglie riuscivano a coprire almeno le spese essenziali (affitto, bollette, beni alimentari) e si rivolgevano alla Caritas soprattutto per supporti integrativi o emergenze, ora si sta assistendo a un ritorno verso i bisogni primari. In sostanza, le Caritas diocesane sono tornate ad essere un presidio di prima linea per fasce di popolazione escluse o poco coperte dalle misure nazionali. Dai focus group è emerso che “le Caritas sono il paracadute per le persone uscite dal RdC”; in assenza di una rete di protezione pubblica, c’è la rete ecclesiale che cerca di evitare lo “schianto al suolo”. Ciò comporta un’enorme pressione aggiuntiva sulle Caritas.
Gli operatori segnalano non solo un aumento quantitativo di persone che si rivolgono alle Caritas, ma anche una maggiore complessità delle situazioni da gestire e una frequenza più intensa dei contatti (alcune famiglie ora bussano alla Caritas settimanalmente, mentre prima lo facevano solo una volta al mese). Le Caritas agiscono, dunque, come ultimo baluardo, di fronte a una “coperta corta”. Il rischio, che è già realtà in molti contesti, è che ne soffra quella funzione di promozione e “trampolino” sociale che invece rappresenta il cuore dell’intervento sociale delle Caritas
Occupabilità: il Supporto Formazione Lavoro come misura da ripensare. Dai focus group condotti con gli operatori emerge con chiarezza che il SFL si è rivelato nei fatti una misura debole e poco efficace, come è provato dalla ridottissima platea di beneficiari e dal ridottissimo numero di coloro che hanno trovato un lavoro stabile.
Molti percorsi formativi si sono rivelati inadeguati o poco realistici (ad esempio corsi online di pasticceria), seguiti solo per non perdere il sussidio, mentre tirocini e lavori di pubblica utilità si sono limitati a esperienze temporanee, senza continuità.
Il risultato è una diffusa sfiducia: il SFL viene percepito come un assegno a tempo, che non offre reali prospettive di inserimento lavorativo, mentre genera disillusione e scarsa fiducia nel futuro.
In conclusione. Non esistono risposte facili per contrastare la povertà, ma punti fermi sì. La povertà è oggi un fenomeno complesso che non ha una sola causa, né un solo effetto. Proprio per questo, le risposte non possono essere frammentate o parziali. Alla luce di questo, e sulla scorta delle indicazioni fornite dagli stessi operatori e operatrici quotidianamente impegnati in azioni di contrasto alla povertà, una strategia nazionale di contrasto alla povertà dovrebbe essere articolata sui seguenti punti fermi (ribaditi da Caritas Italiana nel documento predisposto per la consultazione pubblica sulla strategia europea per il contrasto alla povertà:
- Una misura universale di supporto a chiunque viva in povertà. E’ necessario un sostegno economico garantito a tutte le persone e famiglie in povertà, indipendentemente dalla composizione familiare, dall’età o dalla cittadinanza. La misura deve essere stabile, adeguata al costo della vita e integrata con servizi di accompagnamento sociale.
- Informazione e orientamento accessibili. Servono sportelli territoriali unici a cui le persone possano rivolgersi per essere accompagnate nell’orientamento informativo e nel sostegno amministrativo e campagne di comunicazione chiare, multilingue e diffuse. È essenziale contrastare il fenomeno del non-take-up — chi avrebbe diritto ma non accede per mancanza di informazione — come raccomandato anche da Caritas Europa (“reach the unreached”).
- Semplificazione e accompagnamento digitale. L’uso di piattaforme online non deve portare alla eliminazione di operatori formati. L’e-welfare e il ricorso alle piattaforme digitali per accedere alle prestazioni non può prescindere dalla mediazione umana specialmente per le persone in condizioni di svantaggio. È necessario inoltre uniformare le procedure tra INPS, comuni e servizi sociali, riducendo la discrezionalità e i tempi di risposta.
- Presa in carico integrata e multidisciplinare. Ogni persona deve poter contare su un’équipe multidisciplinare (assistente sociale, educatore, mediatore culturale, psicologo) che costruisca un percorso personalizzato. Questo approccio, raccomandato anche da Caritas Europa, unisce aiuto economico e inclusione sociale.
- Cumulabilità tra contributo economico e reddito da lavoro per favorire la transizione al lavoro. Per evitare che il sostegno economico si trasformi in un disincentivo all’occupazione, è necessario consentire che la misura di reddito minimo resti attiva, almeno in parte, anche dopo l’avvio di un lavoro. Oggi, chi accetta impieghi precari rischia di perdere subito l’assegno e di restare senza tutela in caso di interruzione del contratto. Una decurtazione graduale del beneficio – sul modello degli “in-work benefits” adottati in altri Paesi europei – incoraggerebbe le persone ad accettare offerte di lavoro, favorendo una transizione sicura e progressiva verso l’autonomia economica.
- Politiche attive del lavoro radicate nei territori. Il SFL va ripensato come strumento di vera attivazione: ovvero, percorsi formativi coerenti con le esigenze del mondo economico e produttivo locali, tirocini finalizzati all’assunzione e incentivi per imprese e cooperative che assumono persone in difficoltà.
L’esperienza maturata sul territorio mostra con forza che le misure di sostegno per contrastare la povertà, se frammentate e temporanee, rischiano di alimentare l’insicurezza invece di ridurla.
Solo un approccio fondato su universalità, stabilità e dignità potrà restituire fiducia e futuro a chi oggi vive l’incertezza quotidiana della povertà.