Finanza

L’isola che non studia più: dal primato accademico alla crisi dell’università britannica

Con 600 milioni di copie vendute, la saga di Harry Potter è probabilmente seconda solo al Libretto Rosso di Mao nella classifica dei libri (non religiosi) più diffusi nella storia. I personaggi e le avventure di quel mondo fantastico sono frutto della geniale fantasia di J.K. Rowling. Ma i luoghi, le atmosfere e i rituali della vita comunitaria sono quelli della tradizione accademica inglese, spesso “celebrati” amplificandone i tratti originali. Per la versione cinematografica della saga, una Christ Church Dining Hall di Oxford più grande e solenne di quella reale è stata ricostruita negli studi della Warner Bros di Londra.

Del resto, le istituzioni accademiche sono da sempre un elemento centrale del costume, dell’immaginario e dell’identità British, oltre che un vettore strategico con cui il Regno Unito ha proiettato sul piano internazionale il suo soft power post-imperiale. Il primo capo di governo dell’India indipendente, Jawaharlal Nehru, che aveva studiato a Cambridge, e la cui cultura politica era imbevuta delle idee progressiste incubate dal Trinity College e dalla Fabian Society, ebbe a definirsi the last Englishman to rule India. In verità, molti altri leader politici contemporanei potrebbero fare affermazioni simili.

Ecco perché la crisi che investe oggi le università britanniche non minaccia solo un venerato sistema educativo – o un grandioso “modello di business”, come in molti lo concepiscono. Si intreccia ad una più generale difficoltà di un Paese che dopo la Brexit, e dopo il cambio di cinque primi ministri in sei anni, fatica a ritracciare la sua direzione di marcia.

Nel Regno Unito il 53,8% degli abitanti fra i 25 e i 64 anni possiede un titolo di istruzione terziaria (equivalente alla nostra laurea triennale). La media dei paesi Ocse è del 40,94%. L’Italia, con il 21,58%, è al penultimo posto in questa classifica, prima solo del Messico (dati OCSE, 2023).

L’esperienza universitaria nel Regno Unito non è solo più “pervasiva” che da noi, nel senso che interessa un maggior numero di persone. Rappresenta anche un “evento biografico” per certi versi di maggiore portata da un punto di vista psicologico ed esistenziale. La stragrande maggioranza degli studenti universitari non vive a casa con i genitori. In circa la metà dei casi andare all’università significa trasferirsi in una città a più di 80 km di distanza da casa (Donnelly e Gamsu, “Home and Away”, Sutton Trust Report, 2018). Questo perché il processo di reclutamento accademico si basa essenzialmente sui voti degli esami al termine della scuola superiore, i cosiddetti A-Levels, sostenuti nelle tre materie su cui si è deciso di specializzarsi nel ciclo fra i 16 e i 18 anni. Voti più elevati facilitano l’accesso a istituzioni meglio posizionate nelle classifiche nazionali e internazionali, le quali a loro volta garantiscono un vantaggio “reputazionale” al momento di affacciarsi sul mercato del lavoro.

L’università britannica è inoltre un’istituzione con una spiccata vocazione internazionale, sia per quanto concerne gli studenti che per il corpo docenti: nell’a.a. 2023/24 gli studenti non britannici rappresentavano il 23% del totale (75.490 provenienti da Paesi dell’UE, 656.795 da altri paesi. Bolton et al. in House of Common Library, Research Briefing, 2025).

In molti corsi post-graduate – equivalenti alle nostre lauree magistrali – la maggioranza assoluta degli studenti proviene dall’estero, in particolare da Cina, India e Nigeria (gli ultimi due sono Paesi membri del Commonwealth, nei quali la lingua inglese è molto diffusa). Da un punto di vista economico l’export legato ai servizi di istruzione vale 32,3 miliardi di sterline: le rette universitarie pagate da studenti stranieri, infatti, sono considerate “export” nella contabilità nazionale (dati riferiti al 2022, Department of Education).

Questi numeri testimoniano in primo luogo la grande attrattività dell’università britannica, e del Regno Unito, per i talenti provenienti da tutto il mondo. E raccontano anche di un sistema di istruzione cosmopolita, dinamico, innovativo, capace di integrare e valorizzare capacità, culture e competenze delle più varie, con ampie e positive ricadute sia nel mondo accademico e della ricerca, sia nella società nel suo complesso.

Eppure, dietro i numeri appena presentati, si nasconde anche una parabola assai meno luminosa.

La situazione finanziaria di molte università si è estremamente deteriorata nei tempi recenti. Nell’ultimo anno accademico si stima che il 45% per cento degli istituti chiuda i bilanci in deficit (Office for Students, “Financial sustainability of higher education providers in England”, 2025). Secondo un’inchiesta condotta da Universities UK, il 49% delle università ha eliminato corsi di laurea, il 46% ha ridotto la scelta degli esami, il 18% ha chiuso interi dipartimenti. Il 19% ha già ridotto gli investimenti nella ricerca, mentre il 79% pensa di farlo entro i prossimi tre anni.

Questi massicci tagli di costi si sono tradotti in licenziamenti del personale, sia docente che tecnico amministrativo, in circa un quarto degli istituti. In molti di più sono stati varati piani per incentivare dimissioni volontarie. Tantissimi docenti, pur mantenendo il posto, hanno visto ridursi il tempo da dedicare alla ricerca per coprire mansioni un tempo affidate al personale amministrativo.

Per ricostruire le origini del dissesto è utile partire dal sistema con cui le università raccolgono la maggior parte delle proprie entrate: le rette pagate dagli studenti. Il governo centrale a Londra stabilisce la soglia massima annuale delle rette. Questa è stata triplicata nel 2012 a 9.000 sterline l’anno (circa 10.400 euro). Da allora il limite non si è praticamente più mosso. Il leggero incremento scattato nell’Agosto 2025 lo ha portato a 9.535 sterline. In termini reali la soglia si è quindi ridotta di circa un terzo dal 2012. Di pari passo si sono ridotte le entrate per studente da parte degli atenei, dato che praticamente tutti richiedono il pagamento del massimo consentito: gli studenti sono restii ad iscriversi a corsi “scontati” per paura che anche il prestigio del loro titolo risulti “scontato”, con buona pace di chi sosteneva con una maggiore competizione fra gli atenei avrebbe contributo a spingere in basso le rette.

Dall’a.a. 2015/2016 sono stati eliminati i limiti sul numero di studenti che i singoli istituti possono reclutare. Anche in questo caso la feroce gara fra gli atenei per “accaparrarsi” iscritti ha avuto effetti molto diversi da quelli che molti sostenitori del modello competitivo auspicavano o prevedevano. Sono seguiti mastodontici investimenti nelle strutture architettoniche dei campus (palestre, piscine, biblioteche, aule dotate di ogni ultimo ritrovato della tecnologia) per impressionare le famiglie negli open-day. E naturalmente si è rafforzata l’ossessione per le graduatorie internazionali. I parametri alla base dei quali tali classifiche sono stilate hanno spesso ispirato sistematiche e ipertrofiche procedure to tick the boxes (spuntare le caselle), cioè di semplice ottemperanza formale a una serie di requisiti. E non importa quanto il personale a conoscenza delle effettive dinamiche di funzionamento di un ateneo fosse consapevole dell’impatto scarso, o addirittura deleterio, di determinate iniziative sulla missione centrale di un’università. Fra le tante cose che questi ranking internazionali misurano, infatti, ce n’è una che è incredibilmente ignorata: la reale preparazione degli studenti al termine del loro percorso di studio.

L’impossibilità di “caricare” sugli studenti locali i costi crescenti di funzionamento – ed espansione – delle università ha spinto queste ultime a puntare sugli studenti stranieri, ai quali i già menzionati limiti per le rette non si applicano. Nel circuito del Russel Group – che raduna le 24 università più antiche e prestigiose – la retta annuale per uno studente non britannico può variare da circa 20,000 a circa 35-40.000 sterline, a seconda della materia e del livello accademico (graduate o post-graduate degree).

Ed è così che fra il 2017/2018 e il 2022/2023 i nuovi iscritti stranieri nelle università britanniche sono quasi raddoppiati, passando da 254.000 a 459.200. I pagamenti degli studenti stranieri rappresentano la maggior parte delle entrate provenienti da rette in moltissimi istituti, con quote fra il 60 e l’80% per le top universities (Hillman, in Higher Education Policy Intitute website, 2025).

Chi scrive è stato uno studente prima, e un docente poi, in una università inglese. Ed è anche un ammiratore del modello aperto, internazionale e altamente innovativo di cui il sistema britannico è stato per lungo tempo sinonimo. Ma gli sviluppi recenti – fra cui la spinta all’“internazionalizzazione” che ha guidato le strategie di sviluppo degli atenei – hanno ben poco a che fare con scelte di carattere didattico, pedagogico o scientifico. Hanno invece molto a che fare con la necessità di “spremere” il più possibile tutte le fonti di reddito che consentono più ampi margini di leva.

We cannot afford to lose even one student in this master’s program, è una frase che molti direttori di programmi si sono sentiti ripetere in questi anni: “non possiamo permetterci di perdere nemmeno uno studente in questo programma di master”, sarebbe la traduzione letterale. Ma la traduzione più fedele al suo significato autentico è la seguente: “chiudiamo un occhio, anzi due, sui requisiti di ingresso, come sugli standard richiesti nel corso degli studi. Anche gli studenti che non imparano nulla, e non passerebbero mai esami che verificano davvero il loro livello di apprendimento, pagano le rette”.

Il meccanismo è cominciato ad andare in crisi con la stretta del governo su molti canali dell’immigrazione regolare nel Paese.

Nel 2019, il governo conservatore guidato da Teresa May aveva introdotto una regola che consentiva ai laureati in una università britannica di rimanere due anni nel paese per la ricerca di un lavoro. A tre anni dall’introduzione della nuova normativa i permessi di soggiorno rilasciati a familiari di studenti universitari si erano moltiplicati di nove volte, passando da 19.139 a 135.788 (Seddon, Many foreign students to lose right to bring family to UK, www.bbc.com).

Deciso a tagliare drasticamente in numeri dell’immigrazione netta, il governo – sempre conservatore – di Rishi Sunak ha quindi vietato alla maggior parte degli studenti stranieri postgraduate di richiedere i permessi di soggiorno per i propri familiari a partire dal gennaio 2024. In quello stesso anno accademico (2023/2024) il numero degli studenti stranieri è diminuito del 4% rispetto al record storico che era stato registrato nel 2022/2023 (Bolton et al. in House of Common Library, Research Briefing, 2025). Nel maggio del 2025 il nuovo governo laburista di Keir Starmer ha annunciato l’intenzione di ridurre da due anni a diciotto mesi la durata del permesso di soggiorno concesso agli studenti universitari stranieri una volta terminato il loro percorso di studio.

Alla vigilia dell’anno accademico 2025/2026 la crisi finanziaria delle università è ormai conclamata. Dentro e fuori l’accademia fioccano le proposte per cercare di evitare la bancarotta del sistema: da un marcato incremento del limite massimo per le rette annuali, ad un drastico consolidamento dei centri universitari in un minor numero di “grandi blocchi”, fino al ritorno alla vecchia distinzione fra poli universitari dedicati alla ricerca e politecnici a vocazione professionale.

Quel che spesso sembra mancare nella discussione in corso è una reale presa di coscienza della natura più profonda del problema educativo. Lo diciamo nel modo più semplice e diretto possibile: il livello medio dell’istruzione accademica impartito oggi nel Regno Unito è basso.

Un recente articolo sulla crisi delle università britanniche pubblicato da un autorevolissimo osservatore domestico, il settimanale The Economist (17/7/2025), riportava il dato del ridotto rapporto docenti-studenti (1 a 14) degli atenei britannici in confronto alla media dei paesi sviluppati (1 a 18), o anche di un paese con un sistema simile come l’Australia (1 a 20). La possibilità di “seguire meglio” gli studenti grazie a questo rapporto ridotto contribuirebbe a spiegare gli alti costi, ma anche i bassissimi tassi di abbandono delle università britanniche, suggeriva l’articolo.

Non è così. I bassissimi tassi di abbandono si spiegano col fatto che è praticamente impossibile non passare gli esami in gran parte di questi atenei. Il livello di preparazione richiesta è spesso estremamente superficiale. Tutto ciò che è potenziale fonte di “stress” per lo “studente-cliente” tende ad essere bandito. Il 50% del voto alla fine di un corso è in genere assegnato sulla base di una tesina svolta a casa (a volte persino il 100%). Gli esami orali non esistono. I libri di testo sono quasi considerati un relitto del secolo scorso, sostituiti dalle più agili slides. I docenti sono “fortemente scoraggiati” a superare una certa soglia minima di bocciature nei propri esami. Questo perché… we cannot afford to lose even one student in this program.

Gli atenei britannici dispongono di strutture e mezzi straordinari. E soprattutto di personale, docenti e ricercatori di altissimo livello, anche grazie a criteri rigorosamente meritocratici con i quali sono stati selezionati studiosi e studiose provenienti da ogni angolo del pianeta. Eppure, non credo di aver mai incontrato un collega o una collega in anni recenti che non fossero loro stessi frustrati dalle circostanze che imponevano di abbassare lo standard dei propri insegnamenti.

Un sistema così organizzato può senz’altro mantenere la capacità di attirare talenti a livello internazionale, tanto nel campo della ricerca, quanto in quello delle professioni e del business. Il Regno Unito continua a offrire moltissimo non solo a chi è in cerca di crescita e realizzazione professionale, ma anche, più semplicemente, di vivere bene. Lo stesso primato della lingua inglese è un asset fondamentale in ambito scientifico che è praticamente impossibile disperdere. Il rischio, tuttavia, è che siano sempre di meno i talenti formati in casa, tolti quelli prodotti in roccaforti di assoluta eccellenza.

In tempi in cui anche nella civilissima Inghilterra soffia forte il vento del rancore nativista, non dovrebbe sfuggire anche la portata sociale e politica di un rischio del genere.

Non esistono soluzioni semplici per riparare un sistema così in difficoltà. E forse nemmeno una magia di Harry Potter potrebbe risolvere d’incanto la crisi in corso. Ma cominciare a valutare queste problematiche come emergenze formative, prima ancora che finanziarie ed organizzative, aiuterebbe a fare un passo nella direzione giusta. Che si tratti di scuole di medicina, di matematica, di economia… o di magia, pur sempre di scuole si tratta. Non dovrebbero impegnare le loro migliori intelligenze a “rimediare soldi”, ma a impartire una buona istruzione. Hogwarts non è diventata celebre per come ha saputo gonfiare il proprio bilancio.