Trump e le università americane: riflessioni sul ruolo del mondo accademico
Di fronte alle recenti, preoccupanti iniziative di Trump nei confronti delle università americane pubblichiamo, in traduzione italiana, due riflessioni sulla responsabilità indiretta che potrebbe avere avuto il sostanziale isolamento del mondo accademico, in particolare di politologi e economisti, dal dibattito politico. La prima, recente, è di uno scienziato della politica, Bo Rothstein; la seconda, che risale al 2017 e alla prima presidenza Trump, è di un economista premio Nobel, Angus Deaton.
Gli attacchi di Trump al mondo accademico: La colpa è del sistema universitario statunitense? 1
Le critiche che hanno suscitato gli attacchi incessanti di Donald Trump al sistema universitario degli Stati Uniti sono ampie e pressanti. Tagli importanti ai fondi per la ricerca, richieste di disciplinare alcuni soggetti e istituzioni e l’espulsione di studenti stranieri sono solo alcune delle misure ostili adottate dall’amministrazione Trump. Trump e i suoi sostenitori considerano chiaramente le università come uno dei loro principali avversari ed è evidente che le istituzioni degli Stati che non hanno votato per Trump sono le più bersagliate.
Come molti osservatori hanno sottolineato, questa politica di Trump non è solo una minaccia ai valori liberali fondamentali insiti nel concetto di “libertà accademica”, ma è anche economicamente avventata. Gran parte delle innovazioni che hanno reso gli Stati Uniti una potenza economica mondiale deriva dalla ricerca e dall’istruzione di alta qualità fornita dalle principali università americane.
Le attuali classifiche globali degli istituti di istruzione superiore mostrano costantemente che le università americane occupano le prime posizioni. Una recente classifica ha rivelato che delle 20 migliori università del mondo, circa 15 si trovano negli Stati Uniti. Attaccare queste istituzioni equivale a distruggere una delle risorse più vitali – e più difficili da sostituire – del Paese.
Sebbene le critiche all’assalto di Trump alle università siano più che giustificate, bisogna anche chiedersi: come sono arrivati gli Stati Uniti a questo punto? Come ha fatto un Paese ampiamente considerato come una delle democrazie liberali più vitali del mondo a produrre un elettorato in cui una percentuale così ampia ha scelto di votare per Donald Trump, anche per la seconda volta?
Stiamo parlando di una persona che ha fomentato una folla che ha attaccato violentemente l’istituzione centrale della democrazia del Paese; che ha tentato di costringere i funzionari elettorali a manipolare il conteggio dei voti; e che ha rifiutato di ammettere la sconfitta in un’elezione democratica. Questa è una persona che deride apertamente i disabili, che mente programmaticamente, che si vanta di molestare sessualmente le donne, che minaccia militarmente i Paesi alleati e che ora sta esercitando quella che deve essere vista come una vendetta personale contro coloro che percepisce come suoi avversari politici.
Tuttavia, c’è motivo di chiedersi se le stesse università americane non siano in parte responsabili di questa terribile situazione. Possiamo, ad esempio, fare riferimento a chi negli Stati Uniti svolge un’attività che rientra tra quelle che rientrano nella “professione americana di scienze politiche”, che è la più grande e la più importante del mondo, con l’American Political Science Association che vanta più di 11.000 membri. Sebbene la posizione in classifica dei singoli studiosi sia certamente discutibile, non c’è, ad esempio, dubbio che tra i cinquanta più quotati una netta maggioranza lavora in università statunitensi. E, senza dubbio alcuno, non è possibile trovare un solo scienziato politico in una qualsiasi università americana rispettabile che consideri le politiche di Trump benefiche per la democrazia del Paese.
Infatti, una maggioranza schiacciante è convinta del contrario. Lo stesso si può dire con grande certezza degli economisti statunitensi. Questi costituiscono la professione “più grande e migliore” del mondo, che domina il prestigioso Premio Nobel per le Scienze Economiche. Quasi all’unanimità, i membri di questa professione accademica affermano che la politica economica di Trump, con le sue tariffe elevate e i tentativi di controllare la Banca Centrale, contraddice le più fondamentali acquisizioni della ricerca economica.
Alla luce di questi fatti, è ovvio che sia gli economisti che i politologi degli Stati Uniti hanno fallito miseramente nel trasmettere le loro idee fondamentali a un segmento molto ampio dell’elettorato. Per dirla senza mezzi termini, il Paese con i migliori scienziati politici ed economisti del mondo ha eletto un presidente che non è solo il ‘peggiore’ dal punto di vista di ciò che costituisce la qualità del governo, ma che persegue anche la ‘peggiore’ politica commerciale che gli economisti possano immaginare. Quali sono le ragioni di questa calamità? Una possibile risposta è che gli economisti e gli scienziati politici americani non si sono assunti, in misura sufficiente, la responsabilità di comunicare le loro intuizioni fondamentali al pubblico.
L’economista scozzese-americano Angus Deaton, che lavora all’Università di Princeton dal 1983 e ha ricevuto il Premio Nobel per le Scienze Economiche nel 2015, ha sostenuto che, nonostante la loro forte posizione, “le grandi università americane non sono esenti da colpe“2. Da tempo sono pericolosamente isolate dalla società in cui si trovano e che in ultima analisi le sostiene”. Ha sottolineato che questo isolamento ha portato molte persone con un basso livello di istruzione a considerare le università come istituzioni al servizio solo di un’élite economica e sociale, mentre la loro situazione economica e sociale relativa si deteriorava in modo significativo.
Un’altra figura di spicco che ha evidenziato questo problema è il noto editorialista liberale Nicholas Kristof. In un articolo pubblicato sul New York Times, ha chiesto con enfasi una maggiore partecipazione al dibattito pubblico della comunità americana della ricerca. Ha sostenuto che la carriera dei ricercatori più giovani dipende solo dalla pubblicazione nelle riviste accademiche più prestigiose e più inaccessibili, mentre informare il grande pubblico dei risultati della ricerca non conta. Ha sostenuto che troppi ricercatori si sono emarginati e ha concluso il suo articolo affermando che “il mio amore di un tempo, la scienza politica, è particolarmente responsabile e, considerando il suo impatto pratico, sembra che stia cercando di suicidarsi”.
Ci sono, è vero, diverse brillanti eccezioni a queste tendenze, tra cui gli economisti Paul Krugman e Joseph Stiglitz, e scienziati politici quali Sheri Berman, Francis Fukuyama e Yascha Mounk. Tuttavia, dopo aver prestato servizio come visiting professor in quattro università degli Stati Uniti, dopo aver fatto parte per tre anni del consiglio direttivo dell’American Political Science Association e dopo essere stato in contatto per molti anni con numerosi colleghi americani, la mia impressione è che i problemi evidenziati da Deaton e Kristof siano reali. Rispetto alla Svezia, dove ho trascorso la maggior parte della mia carriera accademica, i colleghi americani sono meno visibili nel dibattito pubblico.
Le università statunitensi sono ‘pericolosamente isolate dalla società’ 3
Angus Deaton
Una bella tradizione negli Stati Uniti è l’ annuale incontro dei nuovi premi Nobel americani con il Presidente degli Stati Uniti nello Studio Ovale – un evento che si svolge tra ottobre, dopo l’annuncio dei premi e dicembre, prima della cerimonia di Stoccolma. Nel 2015, sono stato uno dei quattro americani che hanno ricevuto questo onore. Tre di noi erano immigrati, il quarto era figlio di un immigrato – fatti che non sono sfuggiti al Presidente Obama. Uno di noi, Aziz Sancar, il cui lavoro sulla riparazione del DNA potrebbe un giorno portare a una cura per il cancro, è nato da genitori analfabeti in Turchia, un Paese a maggioranza musulmana. Un altro, William Campbell, che tra i suoi successi vanta la scoperta dell cura per la cecità fluviale, è nato in Irlanda, un Paese che potrebbe essere etichettato come “a rischio terrorismo”.
Né l’Irlanda né la Turchia sono state incluse nei recenti ordini esecutivi del Presidente Trump che vietano l’ingresso a rifugiati e immigrati, ma avrebbero potuto esserlo. Insieme a circa 15.000 altri accademici e 50 premi Nobel, ho firmato una petizione (nel gennaio 2017) per protestare contro questi ordini. Sono sciocchi, arbitrari, controproducenti e probabilmente illegali, almeno in parte. Aver preso di mira una religione è antiamericano e potrebbe essere incostituzionale. Secondo quanto riportato dai media le norme sarebbero state redatte dagli stretti collaboratori di Trump, senza controllo o valutazione da parte delle agenzie governative.
I membri dell’ISIS non chiedono il visto dal Medio Oriente. Gli studenti e i docenti le cui vite e famiglie sono state sconvolte da queste misure sono contrari al terrorismo come lo siamo noi. Questi ordini danneggiano i nostri amici, non i nostri nemici, e minano l’influenza dell’America all’estero, così come il nostro progresso scientifico in patria.
L’ America rischia di ricadere in un atteggiamento isolazionista pre-illuminista, in cui la politica è radicata nella paura, non nella ragione, un atteggiamento che caratterizza i nostri nemici, non i nostri amici.
Uno dei compiti per cui gli accademici vengono pagati è dimostrare che le prime impressioni non sono sempre le migliori, né tanto meno sono buone, e smascherare e confutare le falsità populiste su commercio, immigrazione, rifugiati, religione e terrorismo. Ma gli esperti hanno perso gran parte della loro credibilità, in parte a causa della loro stessa arroganza.
Nella mia disciplina, l’economia, più di due terzi dei nuovi dottori di ricerca sono nati fuori dagli Stati Uniti. Il dipartimento da cui mi sono recentemente ritirato, Princeton, rispecchia questo trend, con più di 20 diversi Paesi di provenienza e tutti e cinque i continenti rappresentati. Siamo decisamente a corto di donne, un’altra importante fonte di diversità di pensiero, ma una delle quattro che abbiamo è una giovane iraniana di talento.
L’afflusso di rifugiati europei nel mondo accademico americano prima e durante la Seconda Guerra Mondiale è ben noto, così come i suoi effetti sulla scienza americana, di cui il Progetto Manhattan è un esempio famoso. L’attuale ondata di immigrati è meno studiata, ma i suoi effetti sono stati altrettanto profondi, almeno in campo economico. I giovani portano con sé le loro culture, le loro convinzioni politiche e le loro passioni, e di conseguenza l’economia americana è migliorata in modo incommensurabile divenendo più interessante e più diversificata.
In economia, come in altri settori, i migranti di ritorno hanno portato benefici nel mondo. La Cina e l’India sono due dei Paesi al mondo la cui crescita e il cui sviluppo sono stati enormemente potenziati dal ritorno dal ritorno di cittadini che hanno studiato e lavorato negli Stati Uniti. L’isolazionismo e la paura possono rallentare la riduzione della povertà e la crescita non solo degli Stati Uniti, ma anche del resto del mondo.
Eppure le grandi università americane non sono esenti da colpe. Da tempo sono pericolosamente isolate dalla società in cui si trovano e che in ultima analisi le sostiene.
Molti accademici vivono in bolle liberali e cosmopolite, poco penetrate dai rumori provenienti dall’esterno delle mura. Le università d’élite corrono il rischio di servire (o, almeno, di essere percepite come se servissero) solo le persone molto ricche, le minoranze e gli stranieri, lasciando poco spazio alla classe operaia americana. Coloro che hanno un’istruzione di livello relativamente basso hanno condiviso in misura minima la crescente prosperità delle coste; la loro salute e l’aspettativa di vita sono in calo e hanno perso progressivamente influenza politica – almeno fino all’elezione di Trump.
Al di là del mondo accademico, la preoccupazione più profonda è se la Costituzione americana sopravviverà a Trump. Il famoso sistema di pesi e contrappesi non sempre agisce con tempestività, anche se i tribunali ci stanno provando. I membri repubblicani del Congresso che si oppongono a Trump devono fronteggiare un sistema di primarie che pone un ostacolo preliminare, per cui gli elettori sono fedeli sostenitori repubblicani che favoriscono Trump con ampie maggioranze. I padri fondatori erano profondamente preoccupati che una repubblica non fosse in grado di resistere a un assalto populista, e temo che stiamo per scoprire se la Costituzione che essi hanno progettato è all’altezza del compito.
1 Questo articolo è stato originariamente pubblicato in inglese su Social Europe il 10 giugno 2025.
2 L’articolo è pubblicato più avanti in traduzione italiana.
3 Questo articolo è originariamente apparso sul sito world.eu a febbraio 2017.