Pensare al piccolo, pensare in grande
La chiamiamo concorrenza perfetta, l’araba fenice portatrice del massimo benessere sociale che ha ispirato la struttura istituzionale della governance delle nostre economie di mercato, volta a combattere non desiderabili strutture di mercato oligopolistiche. Le ipotesi teoriche necessarie prchè questa concorrenza prevalga avrebbero dunque dovuto ricevere la massima attenzione da parte da parte di partiti e movimenti conservatori e liberisti che sopportano a malapena la presenza dello Stato nell’economia se non nella forma dello Stato minimo. Un esempio: l’ipotesi centrale della numerosità pressoché infinita di micro, piccole e medie (MPMI) imprese price-taker, non grandi a sufficienti da agire strategicamente, a danno di consumatori e società. Senza questa condizione, addio concorrenza perfetta.
Stupisce invece, leggendo il nuovo manifesto programmatico della Presidente della Commissione Europea, Ursula von der Leyen, una conservatrice, non trovare in esso alcun riferimento alla necessità di venire incontro alle esigenze nel prossimo quinquennio dei 24 milioni di MPMI presenti nell’Unione europea. L’unico riferimento che troverete è quello alle 24.000 start-up innovative, che rappresentano solo l’1 per 1000 delle nostre MPMI.
Una dimenticanza non casuale: l’Unione europea non ha mai mostrato un particolare attaccamento a questi attori prettamente locali, incapaci di arrivare con le loro scarse risorse a fare lobbying a Bruxelles o Strasburgo, e incompatibili con l’ideale burocratico di generare dall’alto un mercato interno europeo senza frontiere, realizzabile solo grazie alla presenza di grandi multinazionali oligopolistiche che, loro sì, con gli uffici della Commissione interagiscono costantemente, piegando la regolazione ai loro interessi, quella stessa regolazione europea che è dovuta nascere per far fronte alle pesanti esternalità negative (pensiamo all’ambiente) delle grandi imprese e che in ultima analisi pesa paradossalmente in maniera sproporzionata sulle PMI che quelle esternalità non causano se non in minima parte.
Eppure quelle MPMI non sono soltanto speciali rappresentanti dal basso dei valori, imprenditorialità e esigenze dei territori, che caratterizzano l’Unione Europea; sono anche, se messe in grado di fronteggiare gli immensi ostacoli generati da un mondo turbolento e spesso imprevedibile, i più promettenti agenti di innovazione tecnologica per l’Europa. Mario Draghi nel suo rapporto ha evidenziato un gap evidente di produttività tra le due sponde dell’Atlantico, USA ed UE. Per molti europei l’esistenza delle tante MPMI continentali è la causa di questo risultato e la ricetta da applicare è semplice: dato che “piccolo è brutto”, non è competitivo né globale, non aiutiamolo.
Eppure c’è un altro modo, verrebbe da dire un’altra filosofia, di trattare la questione, che pare mietere (da più di 70 anni) enormi successi: quella statunitense. Che, per di più, è maggiormente in linea con l’impostazione della teoria della concorrenza perfetta di cui sopra, visto che tende con un afflato naturale a proteggere le MPMI statunitensi. Si chiama SBA, Small Business Act, e venne firmato nel 1953 dal Presidente Eisenhower (repubblicano) dando vita a un cambio di passo assolutamente originale di politica industriale, a partire dai suoi principi ed obiettivi. Una legge che non ha mai subito cambiamenti sostanziali e che è stata confermata da tutti i successivi Presidenti statunitensi, “red” o “blue”che fossero, e malgrado le pressioni della lobby delle grandi imprese che non l’ha mai gradita. Citando dal nobile incipit di quella norma si legge che “L’essenza del sistema economico americano basato sull’impresa privata è la libera concorrenza … La salvaguardia e l’espansione di tale concorrenza sono fondamentali non solo per il benessere economico, ma anche per la sicurezza di questa nazione. Tale sicurezza e benessere non possono essere realizzati se non si incoraggiano e sviluppano le capacità effettive e potenziali delle piccole imprese.”
Un incipit potente, che afferma come la stessa sopravvivenza dell’impero geopolitico americano dipenda da una politica industriale a favore delle MPMI. E subito dopo si legge: “è la politica dichiarata del Congresso che il Governo statunitense debba aiutare, consigliare, assistere e proteggere gli interessi della piccola impresa per preservare la libera impresa e il benessere del Paese assieme alla sua sicurezza” (corsivo dello scrivente). Quattro verbi forti e uno slancio retorico che danno il senso di una volontà precisa, e che vedono nella parola “protezione” l’essenza della filosofia statunitense. Non protezionismo, ma protezione: come quello di un genitore per il proprio figlio, affinché possa crescere al riparo dalle difficoltà iniziali della vita (economica).
Ad esempio negli appalti pubblici, che rappresentano annualmente circa un sesto del PIL del Paese, si prevede di “garantire che una quota equa degli acquisti e dei contratti o subappalti totali relativi a beni e servizi per il governo sia assegnata alle piccole imprese …”, fino a quando il “bambino” non sia cresciuto a sufficienza per camminare con le proprie gambe. Come nell’UE, negli USA si promuove la concorrenza ma non mettendo in competizione in una gara d’appalto tra piccole e grandi imprese (gara iniqua, dove il vincitore sarà quasi sempre la grande) ma guardando al lungo termine, assicurandosi, per il tramite della crescita di alcune delle piccole vincitrici di gare d’appalto che saranno nel frattempo divenute medie e poi grandi, un tessuto ancora più dinamico e competitivo. Così la proibizione per le grandi di partecipare ad alcune gare (il c.d. “set aside”) altro non è che l’equivalente di una gara juniores, per giovani atleti, a cui i corridori in età adulta non sono invitati per non impedire ai nuovi attori di esprimere il loro talento e per indebolire le barriere all’entrata erette dalle grandi,
E’ utile ricordare che l’idea di concorrenza equa trasferita nel reame di policy negli Stati Uniti è antica quanto il Paese. La mente corre alle parole del segretario del Tesoro Hamilton a fronte della minaccia competitiva britannica e della questione della necessità di proteggere le industrie nascenti: “mantenere una concorrenza equa, sia in termini di qualità che di prezzo, tra le imprese di recente costituzione di un paese e quelle consolidate da tempo di un altro paese è, nella maggior parte dei casi, impossibile. La disparità, in uno o nell’altro o in entrambi i casi, deve necessariamente essere tale da impedire una concorrenza efficace senza l’aiuto e la protezione straordinari del governo.” (MANUFACTURES – Communicated to the House of Representatives, December 5, 1791).
In realtà le politiche a difesa delle MPMI sono attive in quasi tutte le aree geografiche del mondo, meno che nel nostro continente. A distanza di ben 50 anni, nel 2008, l’Ue ha cercato di imitare un tale progetto, prevedendo di “pensare anzitutto in piccolo” (traduzione imperfetta di un più ambizioso “Think Small First”) quanto a politica industriale, ma senza lo stesso mordente. Ad esempio, sul tema della protezione negli appalti alle PMI l’UE fa da tempo orecchie da mercante sull’ipotesi di gare riservate alle piccole imprese e si priva di un’arma potente per rivitalizzare l’imprenditorialità nel continente. Ben altra incisività risulta aver avuto la politica statunitense. In primis, fu adottata una governance ben strutturata, sia grazie alla creazione di una apposita autorità indipendente dedicata al raggiungimento degli obiettivi per le piccole, la Small Business Administration, sia grazie ad un metodo e a una operatività che prevedono il coinvolgimento permanente delle piccole imprese con tavoli di confronto appositi. E poi con quattro verticalizzazioni sui temi ritenuti strategici: appalti pubblici (con l’ambasciatore della piccola impresa all’interno delle grandi stazioni appaltanti e il sistema delle gare – stile juniores – in parte riservate solo alle piccole imprese), regolazione (ancor prima della semplificazione, che guarda al passato, prevedendo che ogni futura legge o regolamentazione prescriva un’analisi d’impatto sulle piccole imprese e un’eventuale regolazione differenziata), formazione e infine protezione (con addirittura un avvocato amicus curiae pubblico per difendere le PMI nel contenzioso con la PA).
Gli Stati Uniti lo insegnano chiaramente: non pensando alle piccole, smettiamo di pensare in grande. E in Italia? 14 lunghi anni. Così tanto abbiamo dovuto aspettare per vedere il Parlamento italiano finalmente autorizzato a esaminare il c.d. Disegno di legge annuale per le micro, piccole e medie imprese (MPMI), così come proposto dal Ministero delle Imprese e del Made in Italy. Proprio il Parlamento, nel 2011, approvò la legge 180, detta anche “Statuto delle Imprese”, che prevedeva appunto come obbligatorio tale Disegno di legge, da presentare alle Camere entro il 30 giugno di ogni anno. Fu approvata con plauso unanime di tutti gli schieramenti politici di allora. In effetti lo Statuto rimane ad oggi una delle più alte manifestazioni di attenzione politica per il ruolo essenziale dell’impresa e dell’imprenditore nel generare progresso e sviluppo.
Eppure quell’afflato originario così nobile è stato tradito per ben 12 volte, da Ministri dello Sviluppo Economico e da Presidenti del Consiglio dei Ministri che non hanno ottemperato all’obbligo di legge, dimenticandosi regolarmente non solo della scadenza del 30 giugno ma addirittura di proporre tale Disegno di legge alle Camere. È possibile che abbia giocato un ruolo, in questa manifestazione di pavidità e di mancanza di rispetto istituzionale, una pervicace miopia nel non vedere nelle piccole imprese il fattore strategico dell’avvio di qualsiasi ripresa economica sostenibile del Paese. Di 4,4 milioni di imprese attive in Italia, 0,09% sono grandi imprese. Eppure ci lasciamo alle spalle un quindicennio che ha fatto di tutto per far scomparire il rimanente 99,91%. Basti pensare alle infauste politiche di austerità: le piccole imprese, al contrario delle grandi, non hanno i mezzi per resistere alle tempeste economiche in assenza di politiche pro-attive a loro protezione e sostegno. Ma non c’è stata solo l’austerità: la mancata produzione annuale del disegno di legge per le MPMI è stata appunto una seconda brutale manifestazione di un vero e proprio sado-masochismo istituzionale. Provvedimenti mancati e politiche sbagliate sono la conferma di un contesto culturale contrario alle MPMI, il cui mantra è sempre stato “piccolo è brutto”, facilitando l’operare a favore delle grandi imprese di politici catturati da lobby e anche di quei sindacati che vedono, spesso a torto, nelle PMI un luogo non regolamentato dei rapporti lavorativi. Quanto stride tutto ciò con l’atteggiamento di policy al di là dell’Atlantico!
Oggi, tuttavia, abbiamo finalmente il primo testo di Disegno di legge annuale per le MPMI pronto per essere trasmesso in Parlamento. Se dovessimo indicare l’articolo del disegno di legge che più ci emoziona, la nostra preferenza andrebbe all’ultimo, l’art. 19, che innova riformando la governance della politica per le MPMI, modificando il ruolo del Garante per le micro, piccole e medie imprese, da anni non operativo e prevedendo un nuovo approccio alla consultazione dei portatori di interesse, con un tavolo di consultazione permanente delle associazioni di categoria maggiormente rappresentative del settore delle startup, delle micro, piccole e medie imprese. Chi pensa al piccolo, pensa in grande.