Chi ha paura della partecipazione dei lavoratori?
La partecipazione dei lavoratori continua a essere materia controversa, come è risultato chiaro anche dalla discussione intorno alla proposta di legge di iniziativa popolare avanzata dalla Cisl, che nel febbraio scorso è stata modificata e approvata in prima lettura alla Camera e ora è in discussione al Senato. Del resto, se dopo quasi ottanta anni non ha ancora trovato applicazione legislativa la previsione dell’articolo 46 della Costituzione, un motivo deve esserci. A leggere il testo approvato alla Camera si deve ritenere che la maggioranza che l’ha approvato non sia ancora pronta non solo a dare corso a quanto previsto dalla Costituzione ma nemmeno a valorizzare quanto già ampiamente sperimentato in tante aziende italiane. Anziché incoraggiare la diffusione e l’evoluzione dei modelli partecipativi, quel testo dà l’impressione di voler frenare e sminuire la partecipazione, forse perfino di temerla.
Si rischia di perdere così un’occasione per ampliare gli spazi di cooperazione nelle relazioni industriali e per dare una spinta gentile a quei settori dell’imprenditoria italiana che continuano a seguire schemi novecenteschi di relazione tra capitale e lavoro: schemi di matrice fordista, nei quali si presume che un’organizzazione calata dall’alto e il relativo controllo gerarchico possano garantire l’efficienza, oppure modalità familistiche nelle quali convivono una concezione gelosa dell’impresa, da proteggere neutralizzando interferenze “indebite”, con aperture anche generose ma all’insegna dell’improvvisazione o del paternalismo.
La richiesta di un coinvolgimento dei lavoratori, in particolare attraverso la partecipazione gestionale, organizzativa e consultiva, sulla quale qui concentriamo l’attenzione, ha un fondamento economico, in primo luogo, nelle esternalità dirette delle scelte di impresa sul lavoro e sulle vite degli stessi lavoratori. Queste rappresentano ricadute rilevanti e articolate che difficilmente la legge o i consueti strumenti di intervento statale potrebbe gestire. Si tratta di un aspetto sostanziale, sebbene non l’unico, della responsabilità sociale dell’impresa. Le scelte di impresa incidono sugli interessi primari di molteplici stakeholders, e tra questi, in primo luogo, dei lavoratori. Il coinvolgimento e la cooperazione può dar luogo a soluzioni capaci di tener conto anche delle esigenze degli stessi lavoratori.
E con ciò trova risposta la domanda retorica di Milton Friedman con la quale egli intendeva negare l’esistenza di qualsiasi responsabilità sociale dell’impresa oltre quella della ricerca del mero profitto: “Se gli imprenditori hanno una responsabilità sociale diversa dall’assicurare il massimo profitto agli azionisti, come possono sapere quale sia?” Ebbene, i lavoratori sanno, per quanto li riguarda, in cosa le scelte di impresa sono rilevanti per loro stessi e possono contribuire a trovare soluzioni adeguate.
Il ragionamento di Friedman prevede solo l’alternativa tra le scelte individuali nel supposto “libero mercato” e la legge. Al contrario, nelle società pluralistiche e avanzate esistono altre istituzioni capaci di contribuire a risolvere problemi di efficienza e di equità. La partecipazione, in particolare, può arrivare là dove la legge e le politiche pubbliche non potrebbero arrivare, e di certo non potrebbero farlo con la stessa efficacia e la stessa adattabilità a diversi contesti.
Ma c’è di più. Con la partecipazione gestionale, organizzativa e consultiva i lavoratori possono contribuire alla capacità di adattamento dell’impresa. Il coinvolgimento facilita l’apporto di conoscenza da parte dei lavoratori che è una importante manifestazione del loro capitale umano e risorsa primaria per migliorare i risultati di impresa al di là del breve periodo.
Esistono diversi metodi di regolazione delle relazioni tra lavoro e capitale all’interno dell’impresa, ognuno con le sue peculiarità: la legge, la contrattazione collettiva e le politiche di gestione del personale da parte dell’impresa. A questi può utilmente aggiungersi la partecipazione.
Rispetto agli altri metodi, la partecipazione è l’unico nel quale l’impresa non rimane una black box poiché ai lavoratori è consentito l’accesso alle informazioni rilevanti. Con essa aumenta la trasparenza e si riduce l’asimmetria informativa per ciò che riguarda le scelte di impresa. Inoltre, l’accesso agli organi di governance attribuisce ai lavoratori una possibilità di voice ‘a monte’ delle scelte di impresa, laddove la contrattazione collettiva esprime una voice prevalentemente ‘a valle’ delle stesse, nel momento della distribuzione dell’eventuale surplus. La partecipazione, poi, si svolge con continuità lungo la vita dell’impresa, mentre la contrattazione collettiva è necessariamente discontinua.
La logica propria della partecipazione è quella della cooperazione, distinta tanto dalla logica rivendicativa tipica della contrattazione, quanto da quella unilaterale delle politiche di gestione del personale. Oggi, in molti settori dell’economia il lavoro non offre solo manodopera, né si limita allo svolgimento di operazioni routinarie come nell’impresa fordista, ma apporta – o potrebbe apportare ove opportunamente valorizzato – conoscenza, creatività, iniziativa. Relazioni di questa natura non sono attivabili semplicemente mediante la fissazione dell’orario di lavoro e del corrispettivo ma richiedono il coinvolgimento e la valorizzazione dei lavoratori anche attraverso forme di partecipazione. E la fiducia che i lavoratori possono leggere nella possibilità loro riconosciuta di partecipare potrebbe facilmente attivare comportamenti reciprocanti favorevoli anche per la produttività dell’impresa. Questo è quanto emerge da diversi studi che mostrano l’adozione di comportamenti reciprocanti da parte dei lavoratori e di cui il Menabò si è occupato.
Il ruolo della partecipazione, del quale erano già consapevoli i Costituenti, può oggi risultare decisivo all’interno delle transizioni digitale ed energetica che l’economia sta affrontando. I lavoratori, infatti, sono pienamente coinvolti e le loro conoscenze e capacità professionali costituiscono risorse importanti per il cambiamento. Al contrario, ove i lavoratori si trovino nella posizione di subire passivamente scelte calate dall’alto e i relativi costi, è più facile che divengano un fattore di resistenza al cambiamento.
Il loro coinvolgimento può facilitare la ricerca di soluzioni condivise e orientare le scelte dell’impresa verso obiettivi di lungo periodo. Si pensi a cosa significa l’introduzione dell’intelligenza artificiale nelle imprese in termini di necessità di definire gli obiettivi del suo impiego e le conseguenze sul lavoro. Certamente, ciò non significa che gli strumenti di partecipazione interni alla singola impresa siano sufficienti a gestire processi così ampi quali le transizioni in atto. La riduzione dei costi a carico dei lavoratori deve poter fare affidamento anche su politiche di carattere generale. A questo scopo sono necessarie, in primo luogo, politiche del lavoro e di welfare adeguate e una cornice di politiche industriali. Tuttavia, ci sono dinamiche di cambiamento interne all’impresa nelle quali può essere rilevante il coinvolgimento dei lavoratori.
A fronte di queste potenzialità della partecipazione, nel passaggio dalla proposta di legge presentata dalla Cisl al testo approvato dalla Camera, sono state introdotte delle modifiche di non poco conto. In particolare, si è voluto sottrarre alla contrattazione collettiva, alla sua ‘saggezza’ e alla sua capacità di bilanciare gli interessi delle parti, la titolarità dell’iniziativa di introdurre forme di partecipazione (là dove si prevedeva che sono gli accordi collettivi a decidere la partecipazione) per farne in larga parte una decisione unilaterale delle imprese (ora sono gli statuti a decidere). Ciò vale per la presenza dei rappresentanti dei lavoratori nel consiglio di sorveglianza, di amministrazione o di controllo, a seconda dei casi, ma anche per la formazione delle commissioni paritetiche così come per le forme di partecipazione organizzativa nelle imprese sotto i 35 addetti, che per il testo approvato dalla Camera sono una scelta dell’impresa anziché il possibile risultato di un accordo collettivo. Inoltre, il numero di rappresentanti dei lavoratori nel consiglio di sorveglianza, pari ad almeno un quinto dei componenti del consiglio nelle previsioni della proposta iniziale della Cisl, secondo il testo della Camera può essere ridotto anche a uno solo. Similmente, per quanto riguarda la cosiddetta partecipazione consultiva, la proposta Cisl stabiliva un diritto dei rappresentanti dei lavoratori a essere informati e preventivamente consultati in merito alle scelte aziendali almeno una volta l’anno, mentre il testo approvato riduce questo diritto a una mera eventualità.
Gli effetti reali di queste modifiche sono limitati in quanto non viene meno la possibilità per la contrattazione, così come già ampiamente accade, di introdurre e regolare la partecipazione nelle aziende. E tuttavia, nella versione approvata, da diritto del lavoratore, secondo quanto prevede l’articolo 46 della Costituzione, e risultato di accordi collettivi, essa diventa iniziativa a discrezione dell’impresa.
Lo scopo principale di questa legge dovrebbe consistere nel riconoscere e valorizzare il ruolo della partecipazione gestionale, organizzativa e consultiva e quindi nel fornire indicazioni coerenti e un sostegno alla sua diffusione. Al contrario, il testo approvato ne confonde la natura e ne sminuisce la forza, facendone quasi un optional delle politiche del personale. Il risultato è che questa legge risulta assai meno utile di quanto si poteva auspicare. La sua capacità di ampliare gli spazi di cooperazione nelle relazioni industriali e di favorire un rinnovamento della cultura sindacale e imprenditoriale del nostro paese risulta indebolita.
La sensazione è che qualcuno ha ancora paura della partecipazione.